lunedì 27 febbraio 2023

Argentina, 1985

di Santiago Mitre.

con: Ricardo Darìn, Gina Mastronicola, Peter Lanzani, Claudio Da Passano, Francisco Bertin, Santiago Armas Estevarena, Alejandra Flechner, Paula Rasenberg, Gabriel Fernàndez.

Drammatico/Storico

Argentina, Regno Unito, Usa 2022














Affrontare il lascito della Storia in modo originale è oggi come non mai una sfida quasi impossibile da vincere; benché il registro classico sia a volte quello migliore per raccontare i drammi del passato, si sente spesso la necessità di usare un tono diverso, meno retorico e stoico, più originale, che meglio possa stimolare la visione di una ricostruzione storica comunque urgente.
"Argentina, 1985" prova a portare in scena in modo inedito i fatti concernenti lo storico processo che, nell'anno del titolo, portò alla condanna dei vertici militari per crimini contro l'umanità, purtroppo fallendo su quasi tutta la linea.



1983. All'indomai della proclamazione della democrazia in Argentina, la giustizia militare decide di deferire a quella civile il procedimento riguardante la messa in stato d'accusa dei generali che negli anni della dittatura militare si sono macchiati dei crimini di tortura e omicidio con la scusa di perseguire gli oppositori comunisti. Incaricato dell'accusa è il procuratore generale Strassera (Ricardo Darìn), il quale si ritrova invischiato in un vortice di minacce e insabbiamenti volti a tutelare una classe dirigente di fatto ancora al potere.



Siamo all'indomani della fine delle stragi. L'orrore del fenomeno dei desaparecidos è ancora pulsante nella coscienza collettiva di un paese pronto a ricominciare, ma ancora ferito nel profondo dalla violenza di un regime fascista irredento.
Strassera si ritrova ad essere suo malgrado un eroe riluttante, un uomo sulle cui spalle grava il peso di portare giustizia ad un popolo distrutto dalla violenza sommaria e compiaciuta. La paranoia verso quella polizia che è braccio armato dell'esercito è tangibile sia per lui, sia per i suoi giovani collaboratori, quella nuova classe dirigente pronta a prendere le redini del paese e a ripagare i torti subiti.
Una vicenda che si sviluppa come un canonico dramma giudiziario, con la ricerca delle testimonianze, l'escussione che porta a galla gli episodi più abominevoli e ovviamente la reazione degli accusati, trincerati dietro l'omertà di un popolo ancora per la maggior parte convinto della loro buona fede. L'unica differenza rispetto al canone è data dal fatto, di natura ovviamente storica, che l'eroe in questo caso non è un avvocato, come di solito avviene, ma un procuratore, ossia un esponente del potere giudiziario, di quello Stato che è chiamato a giudicare alcuni dei suoi membri attivi.



Santiago Mitre, che pur ha fatto dell'impegno civile e politico una sua poetica, narra il tutto con un tono ai limiti dello scanzonato, infarcendo molte scene con un umorismo da commedia brillante, il quale però si incastra male con la storia narrata, oltre che con l'atmosfera cupa che a tratti si evoca. Si passa così dai protagonisti che ricevono telefonate minatorie nelle quali si minacciano violenze ai famigliari a sequenze nelle quali il figlioretto di Strassera fa quello che nel cinema nostrano si definirebbe "il bambino chicchiricchì", una sorta di spalla simpatica che assiste il padre nell'ardua opera di portare giustizia paese disilluso o, ancora, alla sequenza scherzosa in cui il protagonista fa igestacci agli avvocati in tribunale; oltre a ciò, i dialoghi sono spesso inutilmente ironici e brillanti, oltre che maldestramente convenzionali.



La schizofrenia del racconto finisce così per mandare alle ortiche ogni possibile coinvolgimento emotivo; il quale arriva unicamente quando al centro vengono messe le testimonianze dei reduci delle torture, ossia nei momenti più ovvi; quel che è peggio è che Mitra sembra non voler prendere di petto il ruolo del potere giudiziario durante gli anni della dittatura e ogni qual volta in cui tale tematica viene per forza di cose a galla, liquida il tutto in modo frettoloso; oltre che, non si sa per quale strano motivo, sembra non voler mai neanche solo accennare ad un coinvolgimento degli Stati Uniti nei vari golpe che si sono succeduti nel corso degli anni nel paese.



Ne emerge così un dramma debole e sbagliato, il cui unico motivo di interesse è prettamente storico, ossia la testimonianza di un orrore che fu e che ancora scuote le coscienze per la sua inaudita ferocia. Immerso, tuttavia, in una pellicola a dir poco malriusita e per questo del tutto trascurabile.

martedì 21 febbraio 2023

Anche io

She Said

di Maria Schrader.

con: Zoe Kazan, Carey Mulligan, Patricia Clarkson, Andre Braugher, Jennifer Ehle, Emma O'Connor, Adam Shapiro, Tom Pelphrey, Andre Braugher, Frank Wood, Ashley Judd.

Drammatico/Cronaca

Usa 2022












Il fatto che il movimento #metoo si sia trasformato in una glorificata caccia alle streghe e che sia finito per diventare l'esatto opposto di quell'ideale di giustizia sociale che inizialmente rappresentava non deve stupire. Viviamo pur sempre in un'epoca caratterizzata dalla strumentalizzazione, dall'impegno di pura facciata e dalla rabbia sociale usata per soli fini personali, dove il senso di giustizia civile spesso viene usato solo sfogare i bassi istinti a spese di chi si reputa, non importa se a torto o a ragione, colpevole di qualche crimine o anche solo di una condotta vagamente disdicevole.
Un film come "She said" appare quindi drammaticamente necessario; ciò sia al fine di ricordare al pubblico come quel movimento sia iniziato, come quei crimini che perseguiva fossero tanto drammatici quanto effettivi, sia e forse soprattutto per far capire l'effettivo senso di giustizia che ne ha guidato la concezione.



Seguendo in modo pedissequo il libro omonimo a cura di Jodi Kantor e Megan Twohey (che su schermo hanno il volto rispettivamente di Zoe Kazan e Carey Mulligan), "She said" descrive l'evolversi delle investigazioni del duo di giornaliste del New York Times sulle accuse di molestie sessuali mosse contro Harvey Weinstein nel corso di quasi vent'anni. Iniziativa che in realtà trova l'incipit a seguito di un'inchiesta simile che aveva coinvolto qualche anno prima niente meno che Donald Trump, nonché il quasi coevo scandalo di Fox News che già "Bombshell" aveva portato su schermo.
Il film di Maria Schrader si concentra totalmente sulle azioni di Weinstein e prende le mosse dalle dichiarazioni di Rose McGowan, che per prima ne denunciò gli abusi solo per essere immediatamente "silenziata".



L'impianto è quello del più classico film di cronaca, sullo stile di "The Post" e "Il Caso Spotlight": la vita delle due protagoniste resta sempre sullo sfondo, così come la loro reale intenzione dietro l'avvio dell'inchiesta. Quel che conta sono i fatti, le storie delle vittime.
La ricostruzione degli stessi avviene in modo certosino e la messa in scena è pudica: sebbene Gwyneth Paltrow abbia acconsentito a collaborare, non viene mai mostrata in volto, così come la McGowan. L'unica star coinvolta nello scandalo che ha un ruolo attivo è Ashley Judd, che per sua stessa richiesta ha voluto essere coinvolta in modo più diretto.



Il quadro che ne emerge è un atto d'accusa diretto verso un uomo che ha abusato della sua posizione in modo rivoltante, che ha usato e gettato via delle persone per il proprio appagamento e che ha spesso e volentieri distrutto intere vite per i propri capricci. E l'accusa viene rivolta tanto a lui, quanto a quel sistema che gli ha sempre permesso di farla franca, nel quale rientra lo stesso New York Times, che già nel 2004 era alle soglie di denunciare i fatti ma ha poi deciso all'ultimo momento di rimanere inerte. E anche verso quella giustizia che ha spesso e volentieri chiuso gli occhi davanti alle denunce, anche quando raccolte da altre donne.
E' quindi quasi obbligatorio che la mente dietro tutta l'operazione della trasposizione filmica sia Brad Pitt, proprio lui che non solo era a conoscenza dei "segreti di Pulcinella" riguardanti la condotta di Weinstein, ma che ne era stato coinvolto in maniera diretta quando, negli anni '90, aveva intrecciato una relazione romantica con la Paltrow, oltre che con l'ex consorte Angelina Jolie, anch'ella tra le vittime di Weinstein. Impossibilitato a parlarne pubblicamente per anni, si è così preso una sorta di rivincita morale.



Da un punto di vista strettamente filmico, "She Said" gioca purtroppo sempre sul sicuro, con una costruzione ultra-classica che non devia di un millimetro dai canoni dei film-inchiesta americani. E' da lodare la sola capacità di riuscire a costruire in modo sempre diverso quella che è praticamente sempre la medesima scena, con una delle due protagoniste impegnate in una conversazione, spesso solo telefonica, con una delle vittime o dei testimoni; ma al di là di questo, regia e script non corrono rischi di sorta.



Pur solido e ben condotto, alla fine "She said" verrà ricordato, purtroppo, solo per l'indicibile flop che ha generato: costato circa 32 milioni di dollari, ne ha incassati poco più di 13 in tutto il mondo, di cui neanche 2,5 negli Stati Uniti. Pur ottenendo oltre 30 nomination e un paio di vittorie a vari festival, non ha avuto nessun riconoscimento né ai Golden Globes, tantomeno agli imminenti Oscar. Per di più, nessuno ha voluto venderlo come "il film che potrebbe cambiare la vita delle giovani donne" o "un manifesto sull'emancipazione femminile". Non sono state organizzate proiezioni speciali per le scuole, né biglietti a prezzo agevolato per permettere al pubblico meno abbiente di guardalo. A differenza di film "impegnati" del calibro di "Black Panther" e "Captain Marvel".
Un fiasco immeritato ed un oblio praticamente programmato che costituiscono l'ennesima testimonianza di come a Hollywood l'impegno sia solo una moda; e di come, in generale, talvolta l'importanza sociale di un film non venga riconosciuta neanche da chi, giusto qualche anno prima, gridava allo scandalo dinanzi agli eventi che racconta.

lunedì 20 febbraio 2023

Ant-Man and the Wasp: Quantumania

di Peyton Reed.

con: Paul Rudd, Michelle Pfeiffer, Jonathan Majors, Kathryn Newton, Michael Douglas, Evangeline Lilly, Bill Murray, Corey Stoll, Katy O'Brian, Randall Park, William Jackson Harper.

Fantastico/Avventura

Usa 2023











Gli exploit su Ant-Man rappresentano idealmente il lato peggiore del MCU. Il primo film, pur divertente, era palesemente figlio di una visione altrui, quella di Edgar Wright, vero e proprio fautore della trasposizione al cinema di un personaggio che a Kevin Feige sembrava non interessare, e si configurava come un film scritto in un modo, girato in un altro e montato in un terzo, il quale restava in piedi per puro miracolo e grazie all'impegno del cast. Il secondo, "Ant-Man and the Wasp", era semplicemente uno dei peggiori prodotti targati Marvel Studios, che bruciava un villain interessante (Ghost) in favore di una riproposizione stanca e priva di vita dei cliché del primo capitolo, immersi in uno script a dir poco risibile.
E se si tiene conto che avevamo lasciato Scott Lang e gentile signora nell'ultimo dittico sugli Avengers, di certo pellicole non memorabili per quanto campioni di incassi, l'idea di ritornare nel Reame Quantico non era di certo esaltante.
A ciò vanno aggiunti altri due fattori di delusione. La Fase 4 del MCU, pur caratterizzata da pellicole non disprezzabili ma pur sempre a dir poco mediocri e da serie streaming che variano dal riuscito ("WandaVision", "Loki") al genuinamente inguardabile ("Hawkeye" e "She-Hulk - Attorney at Law"), ha rappresentato il momento in cui persino i fan si sono resi conto della caratura dozzinale dei prodotti di Feige e soci, arrivando a detestarli in modo esplicito. E praticamente per la prima volta, la Disney ha deciso di rinunciare alle "recensioni mercenarie" per pubblicizzare le uscite filmiche, con il risultato che "Quantumania" risulta uno dei film peggio recensiti di tutta la produzione Marvel Studios.
Come sempre, occorre quindi chiedersi: questo terzo capitolo delle avventure di Scott Lang è davvero così disastroso?
In realtà no, è più che altro il più classico film Marvel con tutti gli anessi difetti, sicuramente non tra i migliori, ma neanche tra i peggiori.



Centro nevralgico di tutto è il personaggio di Kang il Conquistare, che eredita il ruolo di cattivo definitivo dal Thanos di Jim Sterling, ma che trova un'introduzione esplicita già a metà della Fase 4 e diventa il centro di interesse già da ora, esordendo al cinema.
Nathaniel Richards, in arte Kang, esordisce sulle pagine de "I Fantastici 4" già nel numero 19, nel 1963, opera del "dio" Jack Kirby. Introdotto come il faraone Rama-Tut , per poi dichiarare di essere in realtà Nathaniel Richards e provenire dal 31° secolo, viene inizialmente scambiato da Reed Richards per un suo pronipote, solo per poi scoprire, anni dopo, di come si tratti di una semplice omonimia.
Nel MCU Kang è stato introdotto alla fine della prima stagione del serial su Loki, dove invece appare come una sorta di guardiano delle linee temporali pronto a distruggere ogni deviazione che ne generi una nuova e con essa il relativo universo. Non è chiaro se il Kang di "Quantumania" sia il medesimo, essendo semplicemente indicato come un reietto, esiliato nel Reame Quantico dai Kang degli altri universi.



L'enfasi data al Conquistatore finisce per essere sia punto di forza che punto debole di tutto il film. La storia di Kang e la sua ricerca del mcguffin di turno, la sua relazione con Janet Van Dyne bene o male funzionano, anche grazie alla performance stoica di Jonathan Majors e ad una Michelle Pfeiffer che a quasi 65 anni è ancora affiatata e bellissima; ma il tutto toglie spazio a quella che doveva essere la vera star, ossia il Reame Quantico.
Introdotto come un universo che esiste al di sotto dei piedi dei terrestri tanto vasto e complesso quanto quello che esiste al di sopra delle loro teste, vive più che altro di trovate buffe e personaggi simpatici (su tutti il mostriciattolo Vet, doppiato da Daniel Dastmalchian), ma dopo il primo atto finisce per essere un mero sfondo allo scontro tra la famiglia di Scott Lang e Kang. Il che è un peccato, anche a causa dello spreco di un'estetica azzeccata, che piuttosto che riprendere le tavole di Kirby si rifà invece chiaramente all'arte di Moebius per creare visioni a tratti altamente ispirate, le quali però non portano a nulla di concreto.
Allo stesso modo risulta sprecato Bill Murray, ingabbiato in un incensato cameo del tutto inutile che ne spreca inutilmente il talento ed il carisma.
L'unico elemento ben utilizzato al di là del cast principale è invece, paradossalmente, M.O.D.O.K.; ricreato come versione rediviva del Calabrone, trova una sua funzione come sgherro che si redime; e per un paradosso ancora più sconcertante, il suo design risulta azzeccato: quella CGI disturbante, con quel faccione da uncanny valley inevitabile, finisce per incarnare perfettamente lo status di personaggio rivoltante che deve trasmettere.




Per il resto, "Quantumania" bene o male funziona, soprattutto quando deve dare spazio alle relazioni famigliari. Cassie Lang diventa un secondo centro di interesse nella storia, non più semplice appiglio umano per Scott ma vero e proprio motore della storia. E come sempre il cast riesce a rendere questo ensamble di scienziati pazzi e truffatori a dir poco adorabile.




Mediocre ma non disprezzabile, sicuramente il migliore dei tre film dedicati all'Uomo delle Formiche, "Quantumania" intrattiene a dovere e apre come da copione un orizzonte interessante per i futuri film e serie del MCU.

giovedì 16 febbraio 2023

Triangle of Sadness

di Ruben Östlund.

con: Harris Dickson, Charibi Dean, Woody Harrelson, Vicki Berlin, Dolly De Leon, Alicia Eriksson, Zlatko Buric, Carolina Gynning, Amanda Walker.

Grottesco

Svezia, Francia, Regno Unito, Germania, Messico, Turchia, Grecia, Usa, Danimarca, Svizzera - 2022










Esaltare la demascolinizzazione e umiliare la figura del maschio, possibilmente eterosessuale, è praticamente un passatempo nazionale in Svezia, forse la nazione più orgogliosamente misandrica al mondo; essere originali sull'argomento, creare ritratti che siano interessanti prima ancora che riusciti con al centro figure maschili inette e codarde, è di conseguenza compito assai arduo; cosa che, paradossalmente, riesce bene a Ruben Östlund, il quale, da perfetto figlio della nazione scandinava, si è sempre divertito a descrivere i lati più ottusi e ridicoli del "sesso dominante".
"Triangle of Sadness" da questo punto di vista rappresenta solo il tassello migliore nella sua filmografia, la quale giunge al canonico "punto d'arrivo" con un'opera imperfetta, ma al contempo riuscitissima e dannatamente divertente. 




Ma tale punto d'arrivo non si limita a riprendere un discorso già elaborato e a ripeterlo, quanto ad elevarlo ad un livello successivo, inscrivendo la riflessione "misandrica" all'interno di un contesto sociale. Östlund parte sostanzialmente da un territorio a lui congeniale per poi approdare ad un livello superiore, quello della critica sociologica.
Tutta la prima parte, il primo dei primi tre capitoli, è dedicata a Carl (Harris Dickson), modello non troppo affermato, e alla sua relazione con Yaya (Charibi Dean), anch'ella modella e influencer.
Relazione totalmente basata sulla sovversione del canone del potere maschile; non per niente, il film si apre con un casting (che chiarifica anche un primo significato del titolo, riferendolo allo spazio tra le sopracciglia) nel quale la classica descrizione dello sfruttamento del corpo viene riferita a quello maschile, oggettificato in maniera esplicita e dove per di più viene chiaramente affermato come i modelli maschi siano sottoapagati, che facciano, di conseguenza, un lavoro ingrato per un puro appagamento egoistico.
Nel rapporto di coppia, è Yaya ad essere dominante, sia a causa di una superiorità caratteriale, sia e soprattutto a causa di una superiorità economica, la quale, pur contestata, continua a sussistere e a costituire motivo di scontro. Inferiorità interiore e sociale cominciano già qui ad andare di pari passo, pronti ad acuirsi nel secondo capitolo.



Qui l'azione si sposta si di uno yacht di lusso, perfetto microcosmo volto ad illustrare le ipocrisie della società capitalista occidentale.
Il personale di bordo, costituito da lavoratori appartenenti agli strati più "bassi" della società, viene letteralmente istruito ad essere compiacente al fine di ottenere un maggior riconoscimento economico; l'ossessione per la perfezione propria della moderna ristorazione viene così riletta come pura pulsione d'avarizia.
Non che in realtà le gelosie date dallo status di "maschio beta" non continuino a sussistere in tale parte; una delle sequenze più acide è di fatto quella nella quale Carl fa letteralmente licenziare un marinaio reo di essere più affascinante di lui. Ma il nodo centrale è dato dalla descrizione dissacrante di una classe dirigente che, come da copione, è tanto ricca quanto idiota.



Carl e Yaya scompaiono gradualmente da tale rappresentazione, assorbiti nel corpus di un cast di personaggi sopra le righe, ma riescono lo steso a fare capolino quando si tratta di mettere alla berlina le cretinate tipiche degli influencer, i cui guadagni basati letteralmente sul nulla risultano persino più squallidi di chi è diventato ultramilionario vendendo letteralmente merda.
Tre sono i personaggi che finiscono per colpire di più, ossia l'anziana coppietta inglese e il capitano. I primi sono caratterizzati come due dolci innamorati che hanno fatto carriera vendendo armi e che trovano un contrappasso proprio grazie ad una granata. Il secondo è forse il personaggio più memorabile di tutto il cast, impersonato da un Woody Harrelson al solito fantastico: un uomo palesemente schifato dal contesto in cui lavora e che preferisce rinchiudersi in cabina ad ubriacarsi sulle note dell' "Internazionale" piuttosto che assistere alla volgarità degli ospiti; il quale finisce il suo tempo delirando sul lascito di Marx.



Ed è la volgarità intrinseca alla ricchezza che Östlund distrugge in quella che resta la scena più famosa del film, ossia la cena in presenza del capitano che a causa del mare grosso si trasforma in un'epidemia di vomito e diarrea. Come Chazelle in "Babylon", anche lui si diverte a dissacrare la ricercata ed ostentata eleganza estetica con spruzzi di vomito, portando in scena una distruzione a dir poco esilarante prima ancora che rivoltante.
Con il terzo capitolo, il naufragio sull'isola, la descrizione lascia lo spazio alla disanima dell'equilibrio del potere, in una contro-metafora non originale, ma estremamente forte.



Il sistema sociale preesistente non viene distrutto, ma ribaltato. Non siamo dalle parti di un ritorno allo Stato di Natura stile "Il Signore delle Mosche", quanto di una rivincita sociale à la "Travolti da un insolito destino nell'azzuro mare di agosto": i ricchi si scoprono incapaci, a dettare le regole è il più forte, ossia l'ex donna delle pulizie Abigail (Dolly De Leon); il che porta alla costituzione di un nuovo ordine sociale dove tutti sono pur sempre subordinati, ma questa volta a chi può effettivamente garantirne la sopravvivenza; il quale, a sua volta, si fregia di tutti i privilegi possibili, dalla porzione di cibo maggiore al sesso, il dominio sul corpo altrui questa volta incarnato da un maschio ulteriormente e definitivamente demascolinizzato; l'intento di Östlund è cristallino, ossia quello di dare una disanima del tutto anti-manichea che illustri come la sbruffonaggine sia propria dell'essere umano in generale, a prescindere dalla sua provenienza e che, di conseguenza, sia connaturata allo status dominante.



Se nel racconto metaforico, pur non originale, funziona a dovere, "Triangle of Sadness" si configura purtroppo anche come il più fulgido di ciò che il compianto Jean-Luc Godard definiva "film privo di stile"; la messa in scena, pur pulita e a tratti ricercata, è anche anonima, priva di guizzi e totalmente conforme a quell'estetica "europea" propria di tanto cinema d'autore da almeno un ventennio a questa parte, fregiandosi di silenzi, un montaggio secco, pochissimi movimenti di macchina, come a voler creare un'atmosfera ieratica e lugubre in un contrappunto ironico ad una storia grottesca, la quale tuttavia fa scadere il tutto nell'anonimo piuttosto che conferirgli un'effettiva nota originale.
Pur riuscito ed importante all'interno della filmografia dell'autore, resta così un'opera sicuramente interessante, ma non il capolavoro che in tanti hanno pur acclamato.

lunedì 13 febbraio 2023

Gli Spiriti dell'Isola

The Banshees of Inisherin

di Martin McDonagh.

con: Colin Farrell, Brendan Gleeson, Kerry Condon, Barry Keoghan, Pat Shortt, Gary Lyndon, Jon Kenny, Sheila Flitton.

Drammatico

Irlanda, Regno Unito, Usa 2022



















Dopo il trionfo di "Tre Manifesti a Ebbing, Missouri", la scelta di dirigere un film anticonvenzionale come "Gli Spiriti dell'Isola" era tutt'altro che scontata; e invece McDonagh spiazza tutti con questa pellicola ermetica, chiusa in sè stessa, ma dal significato lo stesso apparente, che porta in scena un racconto dove la storia lascia il passo alla descrizione, riuscendo ad ammaliare.



1923. Sull'isola di Inisherin, nei presi della costa irlandese, la vita scorre placida e senza alcun fatto rilevante, tanto che l'arrivo del prete la domenica è l'evento più sensazionale. In tale contesto, il pastore Padràic Sùllebhàin (Colin Farell) si ritrova del tutto isolato dopo che il suo amico fraterno Colm (Brendan Gleeson) gli confessa di non voler più aver niente a che fare con lui.
Una storia che in realtà è già accaduta, dove l'incipit potrebbe essere un epilogo; qualcosa è successo nella mente di Colm, una realizzazione che lo ha portato a comprendere come l'amicizia con Padràic non lo porti a nulla; in un impulso egoista, decide quindi di tagliare i ponti, lasciando l'amico più giovane in uno stato di incertezza.




McDonagh si concentra così sulla descrizione di tale status, delineando una serie di rapporti volti a descrivere lo stato mentale depressivo in un contesto storico-geografico a dir poco desolante; una desolazione esteriore che fa il paio con quella interiore.
Sull'isola di Inisherin non c'è davvero nulla e la vita di Padràic (così come quella degli altri personaggi) è caratterizzata da un incolmabile vuoto pneumatico. Non ci sono donne nella sua vita, fatta eccezione per la sorella Siobhàn (Kerry Condon, qui bella e ispirata come non mai), acculturata e dal carattere forte, suo ideale opposto; non ci sono aspirazioni di riscatto alcuno, non c'è l'arte, a differenza della vita di Colm, e non ci sono simpatie politiche, con la guerra civile che si presenta solo sotto forma di echi delle esplosioni dalla terraferma. Ogni sviluppo narrativo viene negato e la vita di Padràic finisce per girare in tondo in un susseguirsi di piccoli-grandi drammi.
Su tutto vige l'ombra della morte, la banshee del titolo, la quale non appare come una giovane e bella fata, bensì come un'anziana strega, un presagio di morte. 
Una morte dalla quale non si può fuggire, la cui azione è già decisa, talvolta persino favorita dalla vittima. Una morte che arriva priva di senso al pari della vita spesa nei verdi prati di un luogo tanto bello quanto incredibilmente distruttivo.




Le vicende di Inisherin altro non sono che una cartina di tornasole di quelle dell'Irlanda tutta. Anch'essa un isola e anch'essa immersa in una natura rigogliosa, dove di punto in bianco le persone si ritrovano nemiche senza alcun effettivo motivo, dove la violenza arriva letteralmente a bussare all'uscio di casa e la morte è del tutto priva di significato. E dove si salva solo chi l'abbandona in cerca di una realizzazione che lì non troverebbe.




McDonagh traccia così un parallelo scontato, ma efficace proprio perché affidato ad un racconto totalmente descrittivo, che poggia sul non detto, sulla caratterizzazione dei personaggi e le interpretazioni degli attori, oltre che su di un'atmosfera sottilmente lugubre, contrappuntata da un umorismo nero sottile e irresistibile. Trova semmai un limite nel poco spazio dedicato alle figure secondarie, a quegli "stupidi" che rendono il luogo inabitabile, ma che fanno capolino solo nei personaggi del poliziotto, della negoziante e del prete, troppo pochi per poter davvero convogliare un senso di idiozia generalizzata e insuperabile, anche a fronte della buona caratterizzazione e dello spazio dato al personaggio di Dominic.



Limite che non impedisce all'autore di riuscire a creare un ritratto accurato e convincente, in una pellicola piccola ma dal grande valore.

lunedì 6 febbraio 2023

Bussano alla Porta

Knock at the Cabin

di M.Night Shyamalan.

con: Dave Bautista, Jonathan Groff, Ben Aldrige, Kristen Cui, Nikki Amuka-Bird, Abby Quinn, Rupert Grint.

Thriller

Usa 2023

















---CONTIENE SPOILER---

Con oltre vent'anni carriera alle spalle, M.Night Shyamalan oramai è più che cosciente del fatto che il pubblico si aspetta determinate cose dai suoi film, prima fra tutti il famoso "Shyamalan's twist", quel colpo di scena che rivolta totalmente la storia. Se già con "Old" aveva in parte scompaginato la costruzione classica dei suoi thriller, con "Bussano alla Porta" va oltre e gioca totalmente con le aspettative del pubblico, creando lo Shyamalan's twist definitivo, ossia la totale assenza dello Shyamalan's twist.




Forse perché riprende un soggetto non suo, basato sul romanzo di Paul Trembley, costruisce la storia in modo del tutto lineare. Il primo livello di racconto è quello più classico, una variazione sul canonico home-invasion; il setting è quanto di più scontato si possa immaginare in merito: un cottage nei boschi del nord degli Stati Uniti, una famiglia felice composta da due padri, il sensibile Eric (Jonathan Groff) e il più ruvido Andrew (Ben Aldrige) con la loro figlioletta adottiva Wen (Kristen Cui), presi di mira da quello che sembra un gruppo di fanatici religiosi guidato dall'imponente Leonard (Dave Bautista). 
Solo che le cose sviano dal tracciato praticamente da subito; in primis, l'aggressione non ha motivi omofobi, né il gruppo sembra davvero composto da invasati a causa dei loro modi gentili, che si concretizzano in un ricorso alla violenza solo in caso di estrema necessità. E quando questa si esemplifica oltre la necessità pura, va sempre a colpire uno di loro, mai uno degli ostaggi.




Da qui inizia il gioco delle aspettative. Ci si aspetta sempre che questa apocalisse, pur mostrata, si riveli davvero un falso, che ci sia una spiegazione logica immanente ai comportamenti dei rapitori, che quel sacrificio di sangue (simile a quello de "Il Sacrificio del Cervo Sacro", ma ora dagli echi biblici) che richiedono sia solo frutto di un loro delirio. E invece no, ogni salvezza razionale viene negata, ogni colpo di scena "alla Shyamalan" viene evitato. Tutto, alla fin fine, si svolge in modo lineare, come un vero e proprio rituale che segue regole precise. E il coinvolgimento deriva proprio da questo vistoso e inaspettato tradimento dell'aspettativa, da questo sapiente ricorso ad una costruzione ultraclassica che funziona proprio perché inserita all'interno della filmografia dell'autore.
Ma "Bussano alla Porta" non esaurisce tutte le sue carte sulla mera costruzione della tensione, incorporando anche una perfetta lettura sulla paranoia che insidia i membri della comunità LGBTQ+ ancora oggi e sulle paranoie moderne in generale.




C'è ovviamente la paranoia di una coppia omosessuale bruciata dall'ostilità di chi la circonda, la non accettazione del loro status persino da parte dei famigliari, che porta Andrew a sviluppare un carattere più duro; oltre alla paranoia della persecuzione, con l'aggressione nel bar percepita come omofoba anche quando in realtà non lo è. Da cui il concretizzarsi di tale paranoia nell'invasione dell'alveo famigliare, la distruzione di quel sancta sanctorum costruito a fatica e che ora si vede come distrutto solo a causa del proprio status sessuale.
Ma la paranoia è anche quella, più generica, dello spettatore. Se Shyamalan gioca con le attese di chi guarda il film sviandone costantemente le aspettative e lasciando che tutti gli eventi coincidano effettivamente con quanto descritto, allo stesso modo lo chiama a riflettere sul suo modo di porsi nei confronti di ciò che guarda su di un altro schermo, quello televisivo, sull'innato scetticismo che si ha ogni qual volta si assiste ad una notizia catastrofica. La mente è chiamata a razionalizzare, da cui la vera e propria necessità di categorizzare come falsa qualsiasi notizia che possa in qualche modo nuocere ai preconcetti (veritieri o fasulli che siano) che ciascuno si costruisce: è decisamente più facile credere ad una messa in scena, ad una sciarada, ad una forma di follia condivisa piuttosto che alla fine del mondo.
Il suo intento non è tanto quello di dare dignità ai gruppi complottisti stile QAnon et similia, quanto quello di farci riflettere sulla fallacia del nostro sguardo, sulla nostra incapacità di vedere le cose per quello che sono e sulla relativa, connaturata, difficoltà a farlo, riuscendoci in pieno.



La regia è come al solito solidissima. L'uso serrato dei primi piani, costruiti tramite inquadrature frontali e sguardo a filo di macchina, riesce a comunicare con poco e nulla una tensione schiacciante. Ogni inquadratura è misurata al millimetro e il montaggio serrato e preciso acuisce ulteriormente la sensazione di claustrofobia data dalla storia. Il tutto coronato da un sound design eccellente, che riesce nell'impresa di spaventare ad ogni sussulto.
Nella sua natura di eccezione, "Bussano alla Porta" non fa altro che confermare il talento di Shyamalan, la sua capacità innata di creare opere di valore e di saper costruire una tensione genuina già solo la pura messa in scena, costituendo l'ennesimo tassello di valore in una filmografia che, oramai lo si può affermare con certezza, ha visto più successi che cadute di stile.

venerdì 3 febbraio 2023

Babylon

di Damien Chazelle.

con: Diego Calva, Margot Robbie, Brad Pitt, Jovan Adepo, Jean Smart, Li Jun Li, Phoebe Tonkin, Flea, Lukas Haas, Eric Roberts, Oliva Hamilton, Ethan Suplee, Tobey Maguire, Katherine Waterson, Samara Weaving, Olivia Wilde.

Usa 2022















Ogni volta che Damine Chazelle ha diretto qualcosa, critica e pubblico si sono prostrati ai suoi piedi venerandolo come un genio assoluto della Settima Arte. Al suo esordio con "Whiplash" in pochi hanno avuto il coraggio di sottolineare come gran parte della riuscita del film sia dovuta al cast, mentre "La La Land" è stato accolto come uno dei migliori musical di sempre benché non avesse una colonna sonora più di tanto memorabile, mentre "First Man", pur restando il suo film migliore, è stato incensato come il capolavoro imprescindibile che di fatto non è.
Idillio che si è spezzato con l'uscita di "Babylon", suo primo film che riceve giusto qualche nomination agli Oscar in categorie praticamente di second'ordine e che ha subito critiche feroci, finendo persino per dividere il pubblico tra chi lo detesta senza mezzi termini e chi invece ne parla lo stesso come di un'opera d'arte.
Il che è anche triste, perché se esiste un suo film al quale l'epiteto di "capolavoro" potrebbe calzare non troppo stretto, è proprio questo.



Le prime immagini del film sono al contempo perfettamente esplicatore e altamente fuorvianti. Quella defecazione del pachiderma verso il pubblico, con tanto di dettaglio del deretano che si allarga per far fuoriuscire gli escrementi, sembrerebbe preludere ad un'opera dall'indole unicamente acida, una sorta di "La Grande Bellezza" ambientata nella Hollywood di cento anni fa. Sensazione che si ha anche durante tutto il primo atto, quel prologo decadente e compiaciuto che illustra alla perfezione il caos edonista dell'epoca, quasi una sorta di incipit de "Il Cacciatore" dove il cinismo estremo e le trovate gradasse sostituiscono le emozioni e i rapporti fraterni tra personaggi.
E non c'è modo migliore, in realtà, di introdurre il cast del film, questo quartetto di star, aspiranti star, starlette e manovalanza ambiziosa della fabbrica dei sogni.



Prima dell'avvento del codice Hays, Hollywood era davvero una Babilonia à la Kenneth Anger, un luogo dove i ricchi e famosi si davano al piacere più sfrenato senza alcun ritegno, da cui la descrizione della festa del produttore che apre il film come una sorta di rilettura felliniana dell'orgia di "Eyes Wide Shut". 
Hollywood era il regno dell'eccesso, dell'appagamento oltranzista dei sensi, del sesso urlato a squarciagola. Quelle immagini di una carnalità gratuita dove una donna asiatica incarna un sex symbol stile Marlene Dietrich e persino l'omosessualità esibita non è un tabù, oggi appaiono anacronistiche, eppure era tutto vero. Tanto che Chazelle alla fine non fa rielaborare in minima parte le vere esperienze di Clara Bow e di John Gilbert, alla base dei personaggi di Margot Robbie e Brad Pitt, ossia Nellie La Roy e Jack Conrad.




Una cacofonia che si ripercuote sul set, o sui set, vista la velocità con cui più produzioni venivano girate in contemporanea; un vero e proprio casino ambulante con riprese schizofreniche e oscenità gratuite, dove persino la violenza estrema e la morte vengono ritratte in modo grottesco, iperbolico, senza alcun ritegno e rispetto. Dove tra tossicodipendenti travestiti da vichinghi, superstar ubriache marce, sessualità esplicita anche su schermo, alla fine qualcosa di bello viene lo stesso prodotto, quei sogni pronti per essere consumati dalla massa finiscono davvero per prendere vita. E' Hollywood, baby.




Nel 1927 tutto cambia. L'avvento del sonoro, lo spostamento delle produzioni nei capannoni degli studios, l'impossibilità di costruire le scene in quel modo selvaggio e sanguigno delle origini riforgiano tutta l'industria. Un nuovo mondo pronto a schiacciare quello precedente, che Chazelle porta in scena con la lunga ed estenuante sessione di riprese puntualmente rovinate.
Poi arriva la morigerazione, la trasformazione di quelle feste da un circo degno della Roma pagana ad un brunch per mummie in abiti di lusso. Se prima il sesso era distruttivo ma liberatorio, ora è oppressivo, fastidiosamente celato sotto sorrisi di circostanza, con una coltre di perbenismo ipocrita che nasconde la natura selvaggia di quella classe dirigente che fino a qualche anno prima non si imbarazzava ad abbandonarsi a divertimenti dionisiaci in pubblico. Da cui il grido liberatorio di Nellie, che vomita in faccia ai Rotschild in segno di rigetto delle costruzioni sociali.




Tramite l'ascesa al successo di Manny Torres (Diego Calva), Chazelle rievoca poi l'età dell'oro dei primissimi film sonori, nonché l'avvento del cinema "multietnico", della prima blaxploitation mainstream e delle produzioni in spagnolo. E sempre tramite lui, fa un giro negli anfratti della "nuova" Los Angeles, creando (non si sa quanto volontariamente) un vero e proprio panegirico del libertinismo: laddove in precedenza gli eccessi venivano vissuti in modo diretto e gioioso, con l'avvento del perbenismo sono confinati n un vero e proprio sotterraneo degli orrori, dove la repressione porta all'esasperazione. E regala a Tobey Maguire il miglior ruolo nonché la migliore performance della sua carriera. 



Oltre il ritratto impietoso del tramonto del primo periodo d'oro di Hollywood, "Babylon" è anche un dramma umano, una storia d'amore distruttiva e il letterale "viale del tramonto" di un divo.
Manny Torres si innamora subito della vivace Nellie La Roy, il cui rapporto distruttivo ne segnerà indelebilmente al sorte, Jack Conrad si ritrova da uomo più amato del grande schermo a pagliaccio da deridere una volta che il pubblico ha udito la sua voce poco convincente, mentre Sydney Palmer (Jovan Adepo, che a tratti sempre un giovane Billy Dee Williams) decide di abbandonare le scene per le umiliazioni subite e l'ex femme fatale Fay Zhu (Li Jun Li) vede la su carriera spegnersi poco alla volta.
Gruppo di personaggi che porta la tragicità in un ritratto altrimenti iperbolico e cinico, da cui la distanza con il lavoro di Sorrentino e la vicinanza con quello di Fellini e "La Dolce Vita", benché mai citato. Chazelle ci fa vedere i lati umani di questi divi, siano essi quelli dati dal loro ritorno nei tuguri privati dopo la sfavillante festa o i difficili rapporti famigliari, riuscendo a creare una vera forma di coinvolgimento in un racconto che altrimenti sarebbe risultato freddo.




La visione è invece coinvolgente, oltre che spettacolare grazie inquadrature vorticose, ai piani sequenza liberi, ad un montaggio scattante. E il tutto trova un coronamento in un finale appassionato e appassionante nel quale Chazelle celebra la forza della Settima Arte, la sua innata capacità di rigenerarsi, cambiare volto, adeguarsi alle mode e alle tecnologie per restare sempre e comunque potente, sempre lontano da quella "Fin du Cinema" tanto temuta.
Tanto che alla fine, "Babylon" risulta essere un omaggio alla grandezza del cinema persino più accorato del coevo "The Fabelmans" e del celebratissimo "The Artist". Perché allora tanto astio nei suoi confronti? Risposta semplice: perché è un film scorretto e poco conciliatorio, che vive di momenti cinici e non regala un lieto fine alcuno, ossia tutto quello che il grande pubblico e la critica per bene odiano. Motivo per il quale non ne hanno riconosciuto né la grandezza, tantomeno la perfetta riuscita.