venerdì 22 agosto 2025

Warfare- Tempo di Guerra

Warfare

di Alex Garland & Ray Mendoza.

con: D' Pharaoh Woon-A-Tai, Will Poulter, Joseph Quinn, Kit Connor, Cosmo Jarvis, Michael Gandolfini, Aaron McKenzie, Alex Brockdorff, Finn Bennett, Evan Holtzman.

Guerra/Biografico

Usa, Regno Unito 2025











Alex Garland è un grande un filmmaker o un borioso artistoide perso in una forma di presunzione compiaciuta?
Perché praticamente tutti i suoi film non possono che essere definiti come presuntuosi; si pensi alle sciatte riflessioni cyberpunk di Ex Machina, al teorema misandrico universale di Men, alla vacua distopia di Civil War o anche solo a quell' Annientamento, letteralmente lo Stalker degli ignoranti, senza contare la recente presa in giro chiamata 28 Anni Dopo. Garland è, in buona sostanza, un autore che parte da ottimi spunti e intuizioni, ma finisce sempre per declinarli in modo superficiale, portandoli in scena come opere d'arte moderne che vogliono imporsi come la pietra angolare di qualche riflessione umana astrattamente importante ma finendo per fare la figura del pretenzioso borioso, appunto.
Un film come Warfare forse nasce proprio da una sentita ricerca di autenticità. Un progetto, quello alla base del film, sviluppato in poco tempo: sul set di Civil War conosce Ray Mendoza, veterano dei Navy Seals divenuto consulente per le scene di guerra. I due formano un forte legame intellettuale e Garland rimane colpito dai suoi ricordi della guerra in Iraq, tanto che decide di creare un film che rievochi un episodio in particolare, ossia un'operazione fallita durante la presa della città di Ramadi.



Quella di Warfare è una cronaca nuda e cruda. Non ci sono abbellimenti, non ci sono sovrastrutture narrative fatte di personaggi, story-arc e sottotrame, non ci sono metafore o analogie, tantomeno dialoghi evocativi. Tutto è dismesso in favore di una verosimiglianza totale, che porta anche ad una forma di allontanamento dalla materia trattata: Garland non prende una posizione antibellica, si limita a portare in scena senza filtri e in modo esplicito tutto l'orrore di un comune giorno di battaglia di una squadra qualunque di seals impegnati in una operazione di routine.
Quello che è emerge è così un racconto genuino, che colpisce proprio per la sua mancanza di velleità, le quali si fermano, appunto, ad un'attentissima rievocazione dei fatti, ottenuta grazie alle memorie di Mendoza (per questo accreditato anche alla regia), oltre che di Eliott Miller e Joe Hildebrand, gli unici ex soldati i cui nomi non vengono modificati nel racconto.



Garland trova così un'autenticità unica, quantomeno nel suo cinema; un'autenticità che il cinema di guerra insegue dai tempi di Salvate il Soldato Ryan e che qui, per una volta, giunge a pieno compimento. Complice anche l'ottima gestione del ritmo: la prima parte, tolto un prologo atto ad introdurre la "mondanità" della vita da soldato, ha un ritmo praticamente fermo, con lo stazionamento del gruppo all'interno dell'appartamento e l'azione di spionaggio verso i soggetti sospettati. La seconda, con l'inizio dell'attacco, è fulminea e alterna sapientemente il punto di vista distorto dei personaggi ad uno oggettivo.
Proprio tale costruzione della vicenda permette a Warfare di trovare un pieno valore: le azioni belliche vengono spogliate di ogni retorica, di ogni epica, di ogni forma di abbellimento per divenire pura e fredda esecuzione di un procedimento atto a uccidere o sopravvivere. In un contesto così anti-spettacolare, quando la violenza entra in scena si fa così insostenibile, davvero disturbante. E grazie al carisma degli attori, quei personaggi i cui ruoli sono totalmente costruiti tramite sguardi e azioni divengono simpatici e il coinvolgimento bene o male non manca, evitando la trappola più ovvia di un'operazione del genere.



Il senso di verosimiglianza è totale, non limitato alla semplice ricostruzione degli eventi o al tono usato nel portarli in scena, ma acuito appunto dal ricorso alle impressioni avute dai singoli personaggi, con il racconto oggettivo che si fa soggettivo solamente quando necessario.
Il tono è quasi sempre coerente, quasi sempre dimesso e subordinato ad una ricostruzione certosina e vivida. "Quasi" perché Garland comunque non rinuncia a caratterizzare alcuni personaggi come i suoi soliti "maschi idioti"; scelta a dir poco stramba, tanto che in quella scena nella quale uno dei soldati di rinforzo finisce per far gridare il commilitone ferito perché continua a incappare nelle sue gambe maciullate, non si può non credere come quel bontempone dell'autore di Men non abbia voluto inserire l'ennesimo inutile affondo atto a darsi un tono di superiorità.
Cadute di stile a parte, Warfare resta un racconto teso e affascinante, un'opera a suo modo unica e intensa. Nonché, forse, l'unico film di Garland che merita davvero la visione e soprattutto l'apprezzamento.

giovedì 14 agosto 2025

Weapons

di Zach Cregger.

con: Julia Garner, Josh Brolin, Alden Ehrenreich, Benedict Wong, Cary Christopher, Amy Madigan, Austin Abrams.

Thriller/Horror

Usa 2025















Quando ci si impone con un esordio "folgorante", è sempre difficile creare un secondo film che confermi il proprio talento. A Zach Cregger questa regola fortunatamente non si applica.
Perché il esordio, Barbarian, è stato accolto ottimamente e rappresentava tutto sommato un thriller/horror solido, il cui successo è stato tutto meritato. Ma è con Weapons che Cregger dimostra, nonostante tutto, di non essere solo un regista baciato dalla fortuna per una buona intuizione.



Questo sebbene la premessa di Weapons si basi tutta sul mistero inerente la storia: in una cittadina degli Stati Uniti, una notte, tutti i bambini di una classe elementare iniziano a fuggire di casa, senza apparente motivo. Ad interessarsi dell'accaduto, mentre le autorità brancolano nel buio, sono così la maestra Justine (Julia Garner) e Archer (Josh Brolin), padre di uno dei bambini scomparsi.




Una premessa da favola nera, che ricorda il recente The Piper, vera e propria re-immaginazione (ancora più) horror della fiaba del pifferaio magico. Ma Weapons non vuole essere una favola, quantomeno non nei toni, benché la storia viri sempre verso quella direzione.
Cregger predilige il virtuosismo, tanto nella messa in scena quanto nella scrittura, dove una storia tutto sommato semplice viene smontata e frammentata in diversi punti di vista. Come in Barbarian, anche in qui tutta la sceneggiatura viene strutturata tramite ribaltamenti delle prospettive che disvelano poco alla volta il mistero. L'intrigo è così sempre forte e il ritmo lento, pur appaiato alla lunga durata, di circa 130 minuti, permette all'autore di dare una tridimensionalità praticamente inedita ai personaggi, i quali hanno tutti luci ed ombre: la maestra Justine, per quanto amorevole e vittima dell'ostilità locale, è anche volitiva, mentre Archer, per quanto meschino, è genuinamente preoccupato per la sorte del figlio.



Quando il mistero viene disvelato, di certo non delude, benché qui Cregger si dimostri debitore del primo Ari Aster. Il colpo di scena è ben calibrato e tutta la parte finale colpisce anche per la ferocia. Così che Weapons potrebbe davvero essere considerato come un ottimo exploit horror... se non fosse per un difetto marginale che però induce ad una riflessione forse urgente.



Per tutto il film, la regia stende una sottile patina di ironia sugli eventi, la quale è avvertibile solo in sparute sequenze. Il tono è in generale serissimo e quando la levità arriva riesce tutto sommato ad amalgamarsi con il resto. 
Cosa che nell'ultima parte del finale non avviene: l'uso dei diversi punti di vista per portare in scena la risoluzione porta ad un uso massiccio del registro ironico, volutamente adoperato per distaccarsi dal tutto e incrementato dall'uso di trovate degne di una commedia horror (il pelapatate usato come arma...). La conseguenza è ovvia: il film scade in un umorismo di grana grossa che non solo ammazza ogni coinvolgimento, ma che stona anche con il resto di ciò che si è visto, oltre che con una storia che non potrebbe essere ironica se non in una commedia demenziale pura.



Una scelta stilistica stramba, del tutto figlia di tempi nei quali un autore deve sempre far ricorso al distacco ironico per dimostrarsi "cool" e che porta a credere come spesso gli autori americani abbiano semplicemente paura di essere presi sul serio.
Laddove Cregger dimostra gusto e mano ferma per la quasi totalità dei 130 minuti di durata, quel finale così spiazzante, nel senso peggiore del termine, impedisce a Weapons di divenire davvero memorabile, benché, in generale, confermi comunque il solido mestiere del suo autore.

mercoledì 6 agosto 2025

Gen di Hiroshima

Hadashi no Gen

di Toshio Hirata, Mori Masaki, Shuichi Hirokawa.

Animazione/Drammatico/Storico

Giappone 1983-1986

















---CONTIENE SPOILER---

Alle ore 8:15 del 6 Agosto 1945, il mondo è cambiato per sempre.
Il bombardamento della città di Hiroshima ad opera dell'esercito americano ha sancito la fine della Seconda Guerra Mondiale e l'inizio dell'Era Atomica. L'inizio dell'era del terrore, dello spettro dell'annichilimento definitivo. Ancora oggi, le immagini delle vittime del bombardamento del 6 agosto '45 e di quello del successivo 9 agosto su Nagasaki, rappresentano l'emblema del supremo orrore del quale l'essere umano è capace, anche al netto di quelle, altrettanto sconvolgenti, dei campi di concentramento scoperti in Europa.
Prima ancora, la coscienza di come l'intera razza umana possa essere spazzata via nell'arco di pochi minuti ha portato ad un risveglio del sentimento pacifista, della religiosità sentita, oltre che del condiviso antimilitarismo. Tanto che non sarebbe sbagliato dire come l'odierna sensibilità umana sia nata proprio quel 6 agosto, forgiata sulla pelle degli abitanti di Hiroshima prima, di Nagasaki dopo.
Differenti sono state nel corso degli anni le testimonianze, sia dirette che indirette, dell'olocausto nucleare in Giappone. Ma se ce ne è una che è riuscita a saldarsi in maniera indelebile nella cultura popolare, è quella data da Keiji Nakazawa con il suo manga Gen di Hiroshima.



Classe 1939, Nakazawa ha vissuto sulla sua pelle i terribili eventi di Hiroshima, sua città natale. Inutile dire come la tragedia lo abbia segnato in modo indelebile: quel fatidico giorno perse il padre, sua sorella maggiore e un fratello minore, mentre lui stesso contrasse una serie di malattie dovute alle radiazioni e alle terribili condizioni di vita nel periodo immediatamente successivo all'attacco.
I ricordi di quegli eventi furono rielaborati in un primo momento in due racconti a fumetti, tra le prime opere della sua carriera di mangaka, ossia Colpiti da una Pioggia Nera nel 1966, e soprattutto Io l'ho Visto, nel 1972, che riporta fedelmente la testimonianza di come sia sopravvissuto all'esplosione; proprio il successo di quest'ultimo fumetto convinse i vertici di Shonen Jump ad affidargli la creazione di una serie vera e propria incentrata sui suoi ricordi del periodo post-nucleare, che diventa la celebre Hadashi no Gen (ossia "Gen dai piedi nudi"), arrivata in Italia nel 1999 con il più ordinario ed esplicativo titolo Gen di Hiroshima.


In Hadashi no Gen, Nakazawa fa confluire ricordi e tragedie personali con altre più diffuse, creando uno spaccato lungo e complesso del Giappone nel periodo che va dagli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale alla fine degli anni '40. Protagonista è Gen Nakaoka, non un semplice doppio di Nakazawa, quanto un personaggio a tutto a tondo con il quale l'autore può appunto rielaborare esperienze proprie e altrui.
Un'opera la cui stesura è durata circa quattordici anni (ossia dal 1973 al 1987) e che è ufficialmente incompiuta, con un ultimo capitolo che avrebbe dovuto fungere da epilogo all'epopea di Gen più volte annunciato, ma mai concretizzatosi a causa dell'aggravarsi delle condizioni di salute dell'autore, che pur in tarda età ha contratto una forma di leucemia dovuta alle radiazioni del bombardamento; la storia di Gen, tuttavia, resta comunque completa, con un finale che in realtà chiude praticamente tutte le trame aperte nel corso della lunga pubblicazione, tanto che risulta praticamente sbagliato parlare di un finale mancante o monco.
Non un'opera perfetta, quella di Nakazawa: la lunga serializzazione lo ha forse forzato a dilatare troppo alcune trame, come nel caso di quella riguardante il personaggio di Ryuta, fratello putativo del protagonista la cui storia subisce diverse deviazioni per tornare sempre allo stesso punto. Allo stesso modo, molte situazioni tendono a ripetersi con variazioni poco sostanziali, facendo ritornare in scena eventi che si erano già visti. Senza contare come lo stile di disegno cartoonesco, tipico dei manga dell'epoca, possa risultare indigesto a chi preferisce le fisionomie verosimili a là Ryuchi Ikegami quando si tratta di raccontare una storia realistica e dal forte impatto drammatico.
Difetti i quali spariscono quando ci si approccia alla lettura, per scoprire come la forza umana e drammaturgica del manga siano innegabili.


E' impossibile non commuoversi leggendo le pagine vergate da Nakazawa. Le avventure di Gen e del fratellino Shinji prima, del suo doppio Ryuta dopo e del folto cast di comprimari che si avvicenda nel corso dei tankobon trasuda un'umanità tangibile. 
Su tutto vige un sentimento di miseria prima ancora che di rabbia, la miseria che una generazione di innocenti ha dovuto provare suo malgrado a causa della megalomania del governo nazionalista di Hirohito e Tojo, della follia fascista che ha ridotto alla fame la popolazione per imbarcarsi in una guerra la quale non era preparato a combattere, figuriamoci a vincere, oltre che di chi grazie a quella guerra ha potuto speculare e prosperare senza praticamente dover pagare prezzo alcuno.
Nei primi capitoli, l'autore descrive la vita agra della gente comune durante il conflitto: la fame dovuta al cibo razionato, ma anche l'intolleranza verso chi si professa contrario alla guerra, con il padre di Gen, Daikichi, pittore e orgoglioso anti-patriota, subito bollato come paria; oltre che il razzismo verso i diversi, che si sostanza nella storia del vicino di casa Baku, di origine coreana ma obbligato a rinnegare patria e retaggio ed essere assimilato alla cultura giapponese, solo per dover poi dover vivere comunque ai margini della società.
Il dito di Nakazawa è sempre puntato contro i propri connazionali, persino quando ritrae l'invasore americano in modo dispregiativo. Il suo biasimo va tanto verso chi quella bomba l'ha sganciata, quanto e soprattutto verso chi ha portato in primis al conflitto.



Quando la bomba cade, spazza via un mondo già moribondo, ma l'autore non si risparmia nel ritrarre l'orrore concomitante all'esplosione e soprattutto il lungo dramma dei sopravvissuti. Le sue tavole ritraggono la tragedia di Hiroshima senza filtri o abbellimenti e, anzi, proprio lo stile naif dei disegni riesce a a convogliare meglio i dettagli più sconvolgenti.
Il ritratto che il mangaka offre è così insostenibile, ma quell'orrore così vivo e viscerale colpisce più il cuore che lo stomaco, senza mai scadere nel ricattatorio nonostante i problemi di lunghezza della storia.
Una storia che trova una serie di adattamenti già negli anni '70, quando viene trasposta in una serie di film live-action a partire dal 1976. Ma decisamente più celebre è l'adattamento animato che Hadashi no Gen conosce tra il 1983 e il 1986, diviso in due lungometraggi  che ancora oggi permettono di fruire dell'opera di Nakawaza in modo più immediato e che, alla fine, sacrificano ben poco dell'originale.
Il primo film viene scritto dallo stesso Nakazawa e diretto a sei mani da Toshio Hirata, Mori Masaki e Shuichi Hirokawa, veterani del circuito televisivo che vengono ingaggiati dal mitico studio Madhouse; e pur non potendo contare sui budget faraonici di molte produzioni animate giapponesi dell'epoca, si pone lo stesso come un ottimo adattamento.


A colpire è in primis il bel character design di Kazuo Tomisawa, il quale, pur restando fedele al tratto originale, riesce a conferire ancora più carattere ai singoli personaggi.
La storia viene per forza di cose semplificata per poter essere riassunta in un totale di circa 170 minuti complessivi tra i due film, con il primo che ne dura  80 al netto dei titoli di coda. Una durata breve che causa l'omissione di alcuni personaggi e la forte semplificazioni di alcuni episodi, come quello di Boku, alla cui origine coreana stranamente neanche si accenna, oltre che l'elisione dei fratelli maggiori Gen, Koji e Akira, ma soprattutto il forte sfoltimento dell'episodio che narra del pittore Seiji, il cui story-arc finisce per essere del tutto sterile, perdendo la forza drammatica che aveva su carta.
Ma quando questo adattamento deve trasporre il cuore dell'opera, si dimostra perfettamente degno. La lunga e drammatica sequenza del bombardamento restituisce con livore tutta la carica orrorifica dell'evento. La scelta di ritrarre in modo diretto e crudo gli effetti del calore sul corpo delle persone crea un effetto straniante che ne restituisce appieno il senso di raccapriccio. L'uso di una palette cromatica del tutto innaturale, appaiata ad un sound design che consta del solo rumore del vento e dei boati dell'esplosione, trasmettono un senso di spaesamento quasi grottesco. I due sentimenti propri della tragedia, ossia la sorpresa e la repulsione, giungono allo spettatore come un pugno in faccia, serviti in una forma tanto surreale quanto credibile.



La storia di Gen, in questo primo film, si concentra sulla sua vita prima e dopo il tragico evento e si chiude con la morte della neonata sorella Tomoko. La struttura episodica del manga viene trasposta fedelmente, con il ragazzino che si sposta dapprima in scenari segnati dalla miseria, poi dal disastro.
Il risultato è un ritratto a tinte fortissime che però, proprio come il manga, non scade mai nel ricattatorio, tantomeno nel patetico spicciolo. E che, anzi, piuttosto che limitarsi a ritrarre il dramma al fine di coartare un sentimento di pietà, decide di celebrare la forza del suo protagonista e con lui di tutto il popolo nipponico, il quale, a prescindere dalla miseria e dalle mille difficoltà quotidiane, è sempre pronto a rialzarsi, sempre pronto a superare ogni ostacolo pur di sopravvivere, come le spighe di grano che il padre di Gen piantò per lui.



Nel 1986 esce nei cinema giapponesi la seconda parte del dittico, intitolata semplicemente Hadashi no Gen 2; ad essere trasposta è ora la porzione di storia che va dal flshforward che sposta gli eventi al 1948 sino alla tragica scomparsa della madre del protagonista, dovuta ad un lento avvelenamento da radiazioni.
Questa volta la regia è curata dal solo Toshio Hirata, mentre la sceneggiatura è firmata da Hideo Takayashiki, non più direttamente da Nakazawa; l'animazione risulta poi ancora più fluida, merito di un budget più alto.
Laddove il primo film era una storia di orrore, questo seguito è una storia di pura sopravvivenza, con i personaggi impegnati a cercare cibo e soldi per i medicinali. Il dramma è così ancora più umano, più tangibile per lo spettatore, che può identificarsi facilmente con Gen e il fratello adottivo Ryuta e con i loro neoacquisiti compagni, orfani di guerra lasciati a loro stessi.



Quella di Gen diventa così la storia di un ragazzino impegnato a sopravvivere alla giornata, stretto tra la responsabilità scolastica e la pura necessità di vivere in un mondo dove le vittime della guerra sono abbandonate. Un mondo che ha prima sfruttato quella gente comune per poi dimenticarla, lasciarla marcire tra le macerie della città e accatastarne le ossa nelle fosse comuni, riempite con noncuranza dai soldati americani. E dove i sopravvissuti alla bomba che portano sul loro corpo gli effetti dello scoppio sono visti con sospetto e aperto disprezzo, come dei moderni appestati.
Gli story-arc dei personaggi questa volta risultano incompleti, non è dato sapere se per una precisa scelta narrativa o perché inizialmente doveva essere prodotto anche un terzo film che trasponesse l'ultima parte del manga. Così che non trovano risoluzione né la storia degli orfani, né dell'anziano ex giornalista al quale il bombardamento ha causato una forma di sfinimento fisico e psichico.
Nuovamente, laddove lo script pecca di compattezza e compiutezza, trova la sua forza nel restituire appieno la forza drammatica del manga e, in generale, della storia, che anche qui viene caratterizzata come un inno alla forza di volontà di chi ha saputo rialzarsi dal colpo più feroce che la Storia potesse infliggere.



Ottant'anni dopo quel fatidico sei agosto, trentanove dall'uscita in sala di Hadashi no Gen 2 e trentotto dalla fine della serializzazione del manga in patria, quelle immagini così vivide proposte da Nakazawa e dagli adattamenti animati riescono ancora a sconvolgere, a scuotere nel profondo anche chi non era presente né durante la guerra, né nei decenni successivi, caratterizzati dalla costante presenza dello spettro della distruzione totale, prova di come il lavoro degli autori sia ancora oggi a dir poco essenziale.
Nel frattempo, il mondo è cambiato radicalmente: crollato il Muro di Berlino, finita la Guerra Fredda, le persone hanno forse dimenticato quell'orrore fino a qualche anno fa così presente tanto memoria collettiva che nella cultura, sia alta che popolare. E nella loro idiozia, hanno consegnato il potere assoluto ad una nuova generazione di imperialisti, demagoghi e veri e propri idioti i quali spesso paventano l'arma atomica come puro vanto personale.
Forse è vero che la Storia si ripete sempre: prima come tragedia, poi come farsa.

martedì 29 luglio 2025

I Fantastici 4- Gli Inizi

The Fantastic Four: First Steps

di Matt Shakman.

con: Pedro Pascal, Vanessa Kirby, Ebon Moss-Bachrach, Joseph Quinn, Julia Garner, Ralph Ineson, Natasha Lyonne, Paul Walter Hauser, Sarah Niles, Mark Gatiss.

Fantastico/Supereroistico

Usa 2025











Ma è davvero così difficile fare un film decente sui Fantastici Quattro?
Certamente il concept è antiquato, non per nulla la relativa testata è stata praticamente la prima che il dio dei comic Jack Kirby creò per l'allora neonata Marvel Comics. Senza contare come l'idea di una famiglia di supereroi con superproblemi è stata portata al cinema in modo definitivo da Brad Bird con il bel Gli Incredibili già nel 2004, con uno degli omaggi più sinceri al mondo dei supereroi che si siano mai visti.
Ma quando si tratta di portare sul grande schermo le imprese di quel primo supergruppo di famigliari affiatai e incasinati, ad Hollywood tremano i polsi e i risultati, fino ad ora, sono stati a dir poco imbarazzanti.



Si parte ovviamente con il mitico "bootleg" del 1994, orchestrato da Roger Corman per permettere al produttore Bernd Eichinger di mantenere i diritti di sfruttamento della testata. Il risultato è un film talmente brutto da diventare affascinante, ma non si può davvero essere cattivi con quello che è praticamente un mero obbligo contrattuale girato con un budget di appena un milione di dollari.



Si passa per i due exploit di Tim Story, datati rispettivamente 2005 e 2007.
Il primo, il quale è praticamente la prima vera incarnazione dei personaggi su grande schermo, porta la firma di Mark Frost sullo script, ma alla fine non è dato sapere quanto del lavoro dell'autore sia effettivamente arrivato su schermo. Perché quello giunto su schermo non è che una commedia che talvolta sfiora la parodia, un film che non riesce a prendere sul serio i personaggi neanche quando vorrebbe scadere nel patetico e che li fa muovere nella più ovvia delle origin-story nella quale persino l'arcidemonio Dottor Destino diventa una macchietta da strapazzo.
I Fantastici 4 e Silver Surfer è invece il perfetto esempio di potenziale sprecato. La storia è anche interssante, con l'inclusione del villain Galactus come minaccia cosmica e quel Silver Surfer magnificamente trasposto in tre dimensioni. Ma sul tutto vige l'aura della superficialità, persino quando si è semplicemente chiamati ad imbastire un elementare spettacolo a base di effetti visivi e avventura. Sciattezza perfettamente simboleggiata dal design di Galactus, il quale non è quello classico, caratterizzato da colori sgargianti e forme pacchiane tipiche del tratto di Kirby, abbandonate in favore di un design semplicemente inesistente, dove la sua apparizione viene risolta con una nuvola parlante, ossia la vera e propria morte della creatività.



E poi c'è ovviamente il già mitologico Fant4stic di Josh Trank, un film dove semplicemente non funziona nulla e a confronto del quale persino il film di Corman acquista dignità. A Trank forse non interessava neanche dirigere un adattamento della superfamiglia di Kirby e Stan Lee e vedeva l'opportunità di lavorare per uno studio come una pura occasione lavorativa. Tanto che la sua mancanza di entusiasmo si avverte ad ogni fotogramma.
Si parte dall'estetica, semplicemente anonima: le tutine azzurre vengono scartate in favore di un tristissimo look nero che fa sembrare questo exploit fermo ai primi anni 2000; la fotografa lava via ogni colore in favore di una palette dove dominano grigio e nero. Ogni forma di leggerezza viene bandita, se non in sparutissimi inserti, e vengono persino inseriti alcuni risvolti horror, con la scoperta dei poteri di Mr. Fantastic che sembra uscita da un body horror e le stragi del Dr. Destino degne di un film di Stuart Gordon. A ciò va ovviamente aggiunta una trama che trama non è, con il supergruppo che si limita a formarsi e a sventare la minaccia di turno, imbastita all'ultimo momento per dare un climax al tutto. Tanto che alla fine, più che ad un film sembra di assistere ad un brutto episodio di una brutta serie televisiva.




Riottenuti i diritti di sfruttamento, Kevin Feige può finalmente fare suo il celebre gruppo e inserirlo nel multiverso MCU. E per farlo, decide di fare le cose in grande... per modo di dire.
First Steps è di fatto il perfetto esempio di film Marvel Studios degli ultimi anni, quantomeno sul piano produttivo. Dopo un lungo development hell, Feige opta per un regista televisivo anziché spendere soldi per un grosso nome la cui visione deve necessariamente adattarsi alla standardizzazione made in Marvel. La scelta cade su Matt Shakman, veterano del piccolo schermo che per Feige aveva già diretto qualche episodio di WandaVision, ma il colpo di scena è presto servito: per i Fantastici Quattro si opta per un look alternativo, giustificato dal fatto di non essere ambientato nell'universo Marvel principale, il che gli dona immediatamente una personalità distinta rispetto al mare magnum di prodotti fatti con lo stampino.
Ecco quindi il supergruppo muoversi in un mondo camp ricalcato sull'estetica dei primi anni '60, in ossequio alla Silver Age dei comic, cosa non originalissima, sia visto il recente Superman di James Gunn che, soprattutto, il bel X-Men- L'Inizio di Matthew Vaughn. Ed ecco, finalmente, i Fantastici Quattro indossare dei costumi del tutto simili alle loro controparti cartacee in un film che non sia l'exploit cormaniano del 1994.



L'estetica è anche il pezzo forte del film, il quale, per il resto, vive dei soliti difetti delle produzioni Marvel.
Su tutto, ovviamente uno script claudicante. Laddove i personaggi hanno carattere e grinta e i dialoghi funzionano, la storia presenta buchi dovuti alla classicissima filosofia secondo la quale ogni film deve essere un episodio. Ecco dunque lasciata in sospeso non solo la vera natura di Galactus, della sua fame e del suo ruolo di divoratore di mondi, praticamente uscito fuori dal nulla e nel nulla ritornato, ma soprattutto il ruolo di Franklin Richards, il figlio di Reed e Sue, il cui potere è praticamente il centro di tutto il film, ma che non viene mai davvero spiegato a chi non ha mai neanche sfiorato un albo a fumetti.



Se lo spettatore che non conosce la fonte d'ispirazione si trova così spaesato una volta immerso in una storia dove mancano gli elementi essenziali per il giusto funzionamento, potrebbe rifarsi con il puro spettacolo. Da questo punto di vista, il film non delude... più o meno.
Le sequenze spettacolari di certo non mancano, come l'arrivo alla nave di Galactus o il confronto finale; ma la mano di Shakman è sin troppo televisiva, tende a risolvere praticamente ogni singola scena con inquadrature strette, spesso i canonici primi piani, cosi che la spettacolarità viene fortemente contenuta.



Su tutto vige così una mancanza d'enfasi e di completezza che avvicina pericolosamente il film ai territori televisivi. Tanto che a tratti, la sensazione è proprio quella di guardare un lungo episodio di una serie o una serie di episodi che narrano l'ultimo story-arc di una stagione. Una serie certamente più curata da quella concepita da Josh Trank, ma una serie pur sempre.
Forse è proprio questo il punto d'arrivo della filosofia dei Marvel Studios: quando decidi di creare film in serie, tutti con la stessa fotografia e la stessa estetica, con sparutissime eccezioni, e finisci persino per assumere dei semplici mestieranti dietro la macchina da presa, il risultato non può che essere televisione sul grande schermo, con un biglietto per ogni singolo episodio.
Episodi che, come in questo caso, sono talvolta molto più che dignitosi, ma episodi pur sempre.

lunedì 21 luglio 2025

La Città Proibita

di Gabriele Mainetti.

con: Yaxi Liu, Enrico Borello, Shanshan Chunyu, Sabrina Ferilli, Marco Giallini, Luca Zingaretti, Paolo Buglioni.

Drammatico/Azione

Italia 2025
















Il tentativo di "italianizzare" il cinema di arti marziali non è certo una novità, anche se l'unico vero esperimento del genere è stato lo strambo Il mio nome è Shangai Joe di Mario Caiano, che già nel 1973 fondeva il kung fu con lo Spaghetti Western infarcendo poi il tutto con una carica splatter inusitata, sull'onda del successo che i film di Bruce Lee riscuotevano anche in Italia. E proprio la lunga ombra del Piccolo Drago è essenziale quando si parla di cinema di arti marziali in Italia, non solo per l'apprezzamento che i suoi exploit riscossero nei primi anni '70, quanto per l'immortale L'Urlo di Chen terrorizza anche l'Occidente che, con il suo duello finale nel Colosseo, resta tra gli esponenti più iconici del genere.
Se, quindi, non si è mai avuto un vero filone del "Maccheroni Kung Fu", non si può negare come la città di Roma rappresenti un setting eccellente per una storia di arti marziali. Cosa che il buon Gabriele Mainetti sa e forse proprio per questo ha cercato di forgiare il filone con La Città Proibita.
Un esperimento che, nella migliore tradizione del cinema di genere italiano, prende la lezione del cinema estero e la fa sua, ibridando i film di arti marziali con il dramma umano. Il risultato non ha sicuramente la forza di un Freaks Out, ma, anche al netto dei difetti, risulta davvero interessante.



La città proibita del titolo è il locale del mafioso Wang (Shanshan Chunyu), copertura per il traffico di esseri umani dalla Cina, nel quale irrompe la furibonda Mei (Yaxi Liu), alla disperata ricerca della sorella scomparsa. E che sorge ad un tiro di schioppo dal ristorante di Marcello (Enrico Borello), a sua volta taglieggiato dallo strozzino Annibale (Marco Giallini). I destini dei due finiranno inevitabilmente per incrociarsi.



Ma la città proibita è anche Roma, un luogo che "ti entra dentro e ti cambia", ma che a sua volta è cambiata: non più la patria degli Albertone e soci, è ora una metropoli multietnica, un crogiolo di volti e razze provenienti dai quattro angoli del globo, come in epoca classica.
La xenofobia innata della vecchia generazione diventa così il vero nemico, il rottame di un mondo passato perfettamente incarnato da un Marco Giallini sopra le righe, invecchiato con un make-up pesante per dare perfetto corpo ad una casta di fossili ambulanti la cui mentalità retrograda ha finito per distruggere il Paese prima ancora che sfruttare i più deboli.
Proprio il personaggio di Annibale è il fulcro della vicenda: un gangster che, come lo Zingaro, non è che un narcisista affamato di affermazione personale, un egoista la cui "fame" causa solo guai e che Mainetti si diverte a caratterizzare come una macchietta, come un personaggio da commedia le cui azioni però destabilizzano tutto e tutti.


Laddove la storia di Annibale e del figlio putativo Marcello è il classico dramma criminale, talvolta virato alla commedia, con cui Mainetti porta nel racconto un tocco di tipica italianità, di certo più interessante, per quanto classicissima, è quella di Mei.
Una storia che inizia quasi come l'Urlo di Chen, ma che diventa ben presto altro, pur restando confinata all'interno dei più puri canoni del filone, e che permette all'autore di portare in scena ottime coreografie nei combattimenti, splendidamente incorniciate dalla bella fotografia di Paolo Carnera, che sfoga tutta la sua vena creativa illuminando il locale di Wang e gli anfratti del sottobosco criminale, ma anche quel quartiere Esquilino notturno che sembra davvero uscito da un noir di altri tempi. A coronare il tutto, ci pensa la brava Yaxi Liu, già stuntwoman nel live-action di Mulan e marzialista di lungo corso, è semplicemente perfetta nel ruolo della fredda guerriera in cerca di verità.



Mainetti fonde così action, dramma e commedia, citando come ispirazione non tanto la bruceplotation, quanto il purtroppo misconosciuto Chocolate, film di arti marziali  tailandese del 2008 con la specialista JeeJa Yanin. Ma a differenza di questo bizzarro e bello exploit che lo ha ispirato, lui, purtroppo, a questo giro non riesce a tenere insieme tanti elementi così eterogenei.
Il film inizia benissimo, con una forma e un'estetica da tipico action hongkonghese e l'autore azzecca quel prologo con la rivelazione di come l'azione sia già ambientata in Italia e non in Cina. Ma piano piano la traccia narrativa di Marcello e Annibale prende sempre più spazio fino a fagocitare il resto, con la conseguenza che l'intero film finisce per avere una crisi di identità, divenendo un film di arti marziali dove sovente sia l'azione che la vera protagonista della storia vengono messi in secondo piano rispetto agli altri personaggi, i quali, per forza di cose, non riescono a tenere la scena a causa della loro caratterizzazione "tipicamente italiana". Perché se è vero che il vecchio gangster di mezza tacca di Giallini è sicuramente tanto spassoso quanto inquietante, lo stesso non si può certo dire del Marcello di Marco Borrello: tipico giovane uomo romano, tutto accento e famiglia, la sua storia è quella "tipicamente italiana", appunto, di un maschio schiacciato dal peso della famiglia e del lavoro, il quale si ritrova catapultato in una storia non sua e nella quale si muove a botte di battutacce, faccette e imprecazioni, di certo non il tipo di spettacolo che vale la pena barattare per un po' di sana azione. Soprattutto visto che, quando questa entra effettivamente in scena, di certo non delude. Mancanza di focus forse dovuta all'assenza del fido Nicola Guaglianone in sede di script, la cui penna era decisamente più vicina alla sensibilità di Mainetti rispetto a quella del duo Serino-Bises.



La Città Proibita vive così di due anime che non riescono a coesistere, dove quella italiana finisce per oscurare quella cinese togliendo in parte il divertimento, che in questo caso è anche il vero motivo di esistere del film. Mainetti firma un'opera certamente anticonvenzionale e, nel suo piccolo di film italiano, persino originale, ma che non ha di certo la forza dei due precedenti exploit che ne hanno reso celebre il nome, pur dimostrando lo stesso la sua solidità come puro filmmaker.

lunedì 14 luglio 2025

Superman

di James Gunn.

con: David Corenswet, Rachel Brosnahan, Nicholas Hoult, Edi Gathegi, Skyler Gisondo, Nathan Fillion, Isabela Merced, Marìa Gabriel de Farìa, Anthony Carrigan, Pruitt Taylor Vince, Neva Hawell, Sara Sampaio, Fank Grillo, Mikaela Hoover.

Superoistico/Fantastico/Azione

Usa 2025













Il DC Extended Universe è morto. E, va detto, contrariamente agli auspici, spesso violenti, dei redditers fan di Zack Snyder, non tornerà mai in vita.
Circa dieci anni dopo l'esordio in sala de L'Uomo d'Acciaio, l'esperimento dell'universo supereroistico condiviso di Warner e DC Comics si è rivelato un tonfo che ha quasi affossato la prima e fa ridere vedere oggi quei fanboys che non vogliono rassegnarsi alla sconfitta, quando, ad ogni singola uscita, magari erano proprio loro che criticavano ferocemente la visione di Snyder e soci.
Il nuovo DCU di James Gunn e Peter Safran esordisce ora con Superman Legacy, ribattezzato subito semplicemente Superman. Per Gunn è la prova del nove, dopo essere stato acclamato per la bella trilogia sui Guardiani della Galassia in casa Marvel e aver creato l'altrettanto bello The Suicide Squad per lo Snyderverse.
Un esordio che ha scatenato le solite polemiche di paglia nel fandom, che come sempre non ci perde nulla a massacrare un film basandosi su pochi fotogrammi dei trailer, oltre che a scatenare la perplessità degli spettatori durante le proiezioni test, tanto che Gunn ha dovuto rimettere mano al montaggio più volte, pare arrivando addirittura a cambiare l'intera struttura del film. Uscito in sala, nonostante i molti pareri positivi, ha poi finito per dividere il pubblico. Ed è del tutto normale che un film del genere, che non vuole scendere praticamente mai a compromessi nella sua visione, divida tutto e tutti.


Gunn, in buona sostanza, unisce il classico al moderno, in questa sua lettura del personaggio.
Dal passato torna la visione coloratissima e un po' camp del mondo dei supereroi, che lui riesce a portare in scena in modo serio senza scadere nel ridicolo involontario o nel pretenzioso, come già faceva in The Suicide Squad. Al bando supertizi in abiti scuri e dal cipiglio depresso, ecco arrivare su schermo gli assistenti robot di Kal-El nella Fortezza della Solitudine o il simpatico cagnolino Krypto, ma anche quel Metamorpho il cui design è praticamente lo stesso dei fumetti della Silver Age, compreso il bizzarro accostamento di colori. Allo stesso modo, tornano tutti i concetti più strambi, come gli universi tasca e l'esistenza di molteplici forme di superpoteri e di forme di vita aliena, che Gunn introduce con nonchalance, senza aspettare seguiti o spin-off.
Nel mondo del Superman del 2025, i supereroi esistono da generazioni e il mondo si è abituato a crisi dimensionali e invasioni aliene. Gunn non insulta l'intelligenza dello spettatore, che al pari degli abitanti di Metropolis conosce concetti del genere da almeno 25 anni. Tanto che omette persino il solito racconto di origini per concentrarsi direttamente su storia e personaggi.



Proprio storia e personaggi rappresentano la parte moderna del film.
Tutta la trama prende le mosse dal fatto che Superman si permetta di interferire in un'invasione programmata di uno stato dell'est Europa ai danni di un altro e non c'è neanche bisogno di specificare a cosa in realtà Gunn si riferisca. Il personaggio di Superman diventa così il paladino degli oppressi, non solo dei deboli, un eroe che non ha confini e non si piega alle logiche moderne, non a quelle dell'inerzia politica, tantomeno quelle che vorrebbero gli eroi come dei semplici brand delle aziende, con la Justice League che diventa praticamente un esercito privato.
Un Superman che diventa qui ancora più umano, piegato dai sensi di colpa derivanti dalle sue azioni, insicuro sul fatto che il suo ruolo nel mondo sia effettivamente positivo, ma che nonostante tutto si batte per un ideale di giustizia che non conosce distinzioni, cosa che riporta il personaggio praticamente alle sue origini, persino quando si decide di rileggere il ruolo dei Kryptoniani (cosa che probabilmente verrà rettificata nei seguiti), un pacifista che sfida tutto e tutti in nome del suo ideale. Tanto che non si può reagire con un sorriso amaro quando questo Superman esclama che essere buoni in un mondo di cattivi è la cosa più punk possibile.
Laddove Superman incarna (nuovamente) il meglio dell'umanità, Lex Luthor anche al cinema diventa l'incarnazione del peggior lato dell'essere umano, un omuncolo che, nonostante l'intelligenza superlativa, è schiavo dei peggiori vizi umani, ossia la megalomania e l'invidia. Lo scontro tra i due diviene quello tra i due poli opposti dell'uomo, oltre che quello tra due persone dai grandi talenti, ma dall'insicurezza altrettanto grande. Entrambi restano sempre ancorati ai ruoli di superbuono e supercattivo, non ci sono scale di grigio, si tratta pur sempre di un racconto supereroistico, ma pur senza strafare, Gunn rende credibili queste due figurine, proprio perché fa leva sulla loro estrema umanità; che nel caso di Superman, diviene ancora più marcata, riportandolo alla visione che Donner e Reeve avevano del personaggio. E nonostante si odano anche le fanfare di John Williams, richiamate in servizio perché oramai indissolubilmente legate al personaggio, non siamo dalle parti di un Superman Returns: qui c'è il rispetto per il passato, ma non la sua feticizzazione.


Se nella scrittura Gunn crea così un perfetto distillato del personaggio, nella messa in scena fa anche di più e porta su schermo tutte le possibili situazioni nelle quali lo spettatore può immaginare l'Uomo d'Acciaio. Ecco dunque Superman combattere contro un kaiju nel centro di Metropolis, prendere a cazzotti una sua nemesi, volare tra gli universi e interagire con altri superuomini, oltre che ad intrattenere una tormentata storia d'amore con una Lois Lane agguerrita, perfettamente incarnata dalla bellissima Rachel Brosnahan. E persino l'amico Jimmy Olsen qui diventa parte attiva del racconto e sveste i panni del "simpatico sfigato" per divenire un vero e proprio tombeur des femmes, in un'inversione ironica che paradossalmente finisce per funzionare a dovere.
Gunn paga certamente quando si tratta di infilare tutti gli elementi possibili in una storia di poco più di due ore, con lo script che spesso risulta didascalico, soprattutto nei primi minuti; ma la sua visione è certamente coerente e spettacolare.


Tanto che alla fine, non sarebbe sbagliato definire quello di James Gunn come IL film di Superman: qui c'è tutto ciò che ha reso celebre e amato il personaggio, cucito in una confezione spettacolare dove però il racconto non cede mai passo agli effetti.
E' normale detestarlo: chi è abituato agli eroi DC come personaggi depressi e violenti non potrà che inorridire davanti ai colori sgargianti e al volto umano di David Corenswet. Chi invece conosce il personaggio dai fumetti o dal classico di Richard Donner, non può che apprezzare questa sua nuova lettura.

martedì 8 luglio 2025

Hollywoodland

di Allen Coulter.

con: Adrien Brody, Ben Affleck, Diane Lane, Bob Hoskins, Robin Tunney, Kathleen Robertson, Lois Smith, Philio Mackenzie, Caroline Dhavernas.

Biografico/Giallo/Drammatico

Usa, Canada 2006

















Nel Maggio 1995, alla notizia dell'incidente che paralizzò a vita Christopher Reeve, la mente di molti spettatori e dei fan dell'Uomo d'Acciaio di casa DC non poté che correre ad un altro tragico evento che colpì uno degli storici interpreti di Superman.
Il 16 Giugno 1959, il corpo di George Reeves, che prestò volto e corpo a Superman a partire dal 1951, venne ritrovato senza vita nella sua casa di Los Angeles. Morto a soli 45 anni, Reeves lasciò un segno indelebile nella cultura popolare e per anni fu il suo volto ad essere quello associato direttamente al personaggio.
Ma il suo nome e la sua morte sono ricordate tutt'oggi per il mistero che ancora li permea. Sebbene inizialmente registrato come suicidio, il decesso lasciò perplessi molti di coloro che assistettero alla scena del crimine e soprattutto di chi conosceva la tumultuosa vita privata dell'attore.
Nel 2006, oltre cinquant'anni dopo gli eventi, Hollywood decide di rievocare la figura di Reeves in Hollywoodland, mix tra crime drama e biografia vera e propria atto a chiarire molti dei lati oscuri della vita e della morte dell'interprete.


Un'opera che all'epoca venne accolta molto bene: Allen Coulter ricevette una nomination come miglior regia al Festival di Venezia e la performance di Ben Affleck, che una decina d'anni dopo, paradossalmente, avrebbe combattuto Superman in Batman v. Superman- Dawn of Justice, gli valse parecchi riconoscimenti, compresa la Coppa Volpi.
Hoollywoodland rievoca la morte di Reeves tramite gli occhi di Louis Simo (Adrein Brody), immaginario detective privato losangelita incaricato di scoprire la verità dietro la morte dell'attore. La vita di quest'ultimo viene ricostruita per il tramite di flashback atti a disvelarne l'ascesa alla fama e la caduta in disgrazia, entrambe dovute a due figure femminili: l'amante Toni Mannix (Diane Lane), moglie di Eddie Mannix (Bob Hoskins), boss della MGM (la cui figura sarebbe poi stata rievocata dai fratelli Coen in Ave, Cesare!) e la fidanzata Leonore Lemmon (Robin Tunney).


Le ipotesi sulla morte di Reeves sono tre, ossia suicidio, omicidio per mano della Lemmon e assassinio per conto di Mannix, scontento di come la sua relazione con la Lemmon avesse causato la depressione della moglie Toni. 
Coulter e lo sceneggiatore Paul Bernbaum decidono di non dare una risposta al mistero, propongono tutte e tre le piste e lasciano che sia lo spettatore a decidere cosa davvero sia successo quella fatidica sera. Il focus del film riguarda piuttosto la persona di Reeves e, soprattutto, il mondo in cui questo si muove, un mondo fatto di gelosia e invidia, dove non esistono valori umani comunemente intesi.


Hollywood è il luogo dei sogni, ma la fama è sempre un'arma a doppio taglio. Una statuizione che nel 2006 era già vecchia, ma che qui trova la giusta forma.
Reeves diventa una star dalla sera alla mattina, ma le sue ambizioni vengono frustrate dal typecasting: a metà degli anni '50, essere il volto del supereroe per antonomasia era motivo di scherno e il costume di quello che già all'epoca era un'icona popolare non era percepito diversamente da quello di un comune clown.
Reeves diventa così l'ennesima vittima della cultura dell'apparire, di un mondo dove a nessuno importa davvero del talento o dell'ambizione, solo della vendibilità di un volto. Nella rievocazione tornano alcuni degli episodi più famosi a lui associati, come la proiezione test di Da qui all'Eternità durante la quale il pubblico rideva ad ogni sua apparizione e persino l'aneddoto secondo cui ad un evento pubblico un bambino cercò di sparargli con una vera pistola, per scoprire se fosse davvero a prova di proiettile, confinato in un sogno di Simo vista la sua poca plausibilità.
Il personaggio di Simo, poi, da buon detective, è lo strumento con il quale scandagliare la corruzione sottostante al business spietato, con i capi degli studio che arrivano ad utilizzare la polizia per spazzare lo sporco sotto al tappeto. A Hollywood non c'è genuinità, ciò che conta è la pura apparenza, dunque anche il mistero della morte di un attore è meglio che resti tale, con il fardello dell'indecifrabilità degli eventi che viene simboleggiato dalla figura dell'anziano culturista, apparizione lynchiana che accompagna Simo ogni qual volta sembra progredire con l'indagine.



Su tutto vige una coltre di tristezza, un'atmosfera mesta e funerea. La fotografia di Jonathan Freeman (poi attivissimo in televisione) desatura i colori e li vira al seppia, tecnica solitamente utilizzata per generare un sentimento nostalgico, che qui viene sostituito da uno di pura tristezza.
Hollywood diventa così non il luogo in cui i sogni si avverano, ma quello in cui sogni e ambizioni finiscono per morire, parabola malauguratamente calzante se si guarda alla figura di Reeves.
Laddove il cast fa il suo dovere e persino Ben Affleck riesce a creare un personaggio affascinante e empatico, la regia di Coulter è forse troppo vicina ad un formato televisivo, troppo ancorata alle parole della sceneggiatura, adagiandosi su di una narrazione "classica" che riesce sicuramente a trasmettere il giusto mood, ma che a tratti si dilunga sin troppo senza che nulla venga davvero aggiunto alla narrazione.



Hollywoodland è così un ritratto riuscito, anche se non memorabile, una rievocazione  di una figura suo malgrado tragica che ha fatto epoca, nonostante oggi sia poco ricordato.