con: Ugo Tognazzi, Flavio Bucci, Daria Nicolodi, Salvo Randone, Mario Scaccia, Gigi Proietti, Orazio Orlando, Julien Guimar, Cecilia Polizzi.
Italia, Francia 1973
Agli inizi degli anni '70, il nome di Elio Petri rientrava tra quelli dei cineasti italiani più riveriti. Certo, non era sicuramente una superstar internazionale il cui stile veniva copiato e omaggiato ogni dove come Federico Fellini o Sergio Leone, ma le sue opere avevano lo stesso suscitato un fortissimo interesse verso il cinema dell'impegno civile nostrano e non solo per i canonici "motivi di attualità", come l'Oscar per il miglior film straniero a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e la Palma d'Oro per La Classe Operaia va in Paradiso potevano dimostrare. E nonostante il suo sostegno a Lotta Continua, con la clamorosa firma contro Luigi Calabresi, la sua carriera non ha subito ostracismi di sorta, pur in un periodo a dir poco rovente per l'Italia tutta, per lo meno a inizio di quello che sarà, malauguratamente, l'ultimo decennio della sua carriera.
La Proprietà non è più un furto arriva nel 1973, a chiusura di quella che a posteriori è stata definita come "la Trilogia delle Nevrosi" incorporando i due film precedenti. Tre film che trattano tematiche differenti, ma che hanno come leitmotiv un protagonista in preda all'ossessione e ai limiti della pazzia. Ne La Proprietà esso non è però interpretato dal fido Gian Maria Volonté, bensì da un giovane Flavio Bucci, giustapposto ad un magnifico Ugo Tognazzi nei panni del "cattivo", il quale caratterizza il suo personaggio in modo sgradevole e usando un registro più vicino al metodo, avvicinandosi ad esso anche fisicamente. Ma La Proprietà non è davvero incentrato sul personaggio di Bucci, quanto sui rapporti tra i vari personaggi, i quali rappresentano le dinamiche di potere nell'Italia capitalista che fu.
La proprietà è un furto e l'ossessione per il possesso, per l' "avere" è divenuta causa di vita dell'essere umano. Tale è l'assunto marxista su cui il film si basa e che porta in scena in modo acido.
Se la proprietà è un furto, perché il sistema capitalistico si basa sullo sfruttamento del lavoro altrui, allora gli imprenditori non sono che ladri; ciò è ancora più vero in una società dove gli imprenditori sono sovente dediti al malaffare, come quella italiana.
Tali concetti sono incarnati in primis nel personaggio di Tognazzi, il macellaio/speculatore privo di un vero nome, poi dal personaggio di Paco l'Argentino, interpretato da Gigi Proietti, che compare in un simpatico cameo verso il finale, ladro di professione che elogia il defunto collega Albertone (Mario Scaccia), stabilendo come l'intera società stia in piedi proprio grazie alla presenza dei ladri, il cui apporto è necessario al relativo funzionamento; senza di loro, poliziotti, giudici, avvocati e assicuratori non avrebbero lavoro.
Il Macellaio, d'altro canto, è semplicemente l'incarnazione dell'imprenditore-tipo dell'epoca: un uomo sgradevole e innamorato del lusso, che usa la sua superiorità plutocratica per sottomettere chiunque; per lui tutti possono essere comprati e ciò che non può essere posseduto va distrutto.
Nel concetto di proprietà rientra anche la donna: mera res che nell'Italia degli anni '70 (e non solo) è ancora un orpello da esibire e oggetto da concupire; da cui il personaggio di Anita, interpretato dalla compianta Daria Nicolodi al suo esordio. Anita è una donna-oggetto in tutti i sensi, tanto che lo stesso Petri insiste sul suo corpo nudo: è oggetto della contesa tra il Macellaio e il ragioniere Total, ma è anche un puro strumento di piacere sessuale, tanto che ella stessa non esita a definirsi come una "operaia" che lavora al servizio delle pulsioni sessuali del suo compagno.
Il centro nodale della dinamica tra i personaggi è ovviamente il ragioniere Total, del quale Flavio Bucci incarna perfettamente lo status di "sottomesso" con una performance che fa della fisicità il suo pezzo forte.
Total è un inetto, un altro esempio di "Fantozzi ante literam" dopo Il Maestro di Vigevano, il quale lavora come impiegato in banca, ma è allergico al denaro a causa di una sorta di ipocondria che ne ha causato tale singolare idiosincrasia. Allergia che si spiega in modo semplice: sa di non potersi arricchire, dunque sviluppa un'avversione per l'oggetto del desiderio come meccanismo di difesa inconscia.
Il furto diventa così atto di ribellione nei confronti di un sistema che tende a privilegiare solo chi sfrutta il prossimo e chi approfitta della buona fede altrui. Un furto usato per vendicarsi di colui che sta al vertice della scala sociale, ossia il Macellaio, con il quale avvia una lotta mirata a spogliarlo di ogni avere.
Una rivincita sociale? Non proprio. Petri e Ugo Pirro guardano a questo personaggio in modo poco positivo: non è una vittima da compatire come Lulù Massa, quanto il perfetto prodotto della cultura dell'affermazione individuale, un essere plasmato per essere sottomesso, ma che non vuole davvero emanciparsi dal sistema, non vuole lottare per avere davvero quanto di suo diritto in quanto lavoratore, piuttosto vuole avere una gratificazione immediata ed effimera. Da cui lo status di "marxista mandrakista" che fa sparire la proprietà altrui per il proprio benessere; un ladro anch'egli, al pari di chi lo sfrutta, benché guidato dalla necessità piuttosto che dalla cupidigia.
Le altre tre figure della dinamica sono più particolari. Albertone è il classico ladro di mestiere, un uomo che vive alla giornata e che usa il furto per sopravvivere, simbolo di come persino i ladri siano sottomessi ai meccanismi capitalistici quando si tratta di avere a che fare con i ricettatori; il brigadiere Pirelli è il classico esempio di uomo di leggi il quale usa la violenza per intimidire i sospetti, anch'egli parte di un meccanismo più grande del quale a suo modo resta schiacciato, una figura praticamente inedita nel cinema di Petri, soprattutto se si pensa a come descriveva le forse dell'ordine in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Il padre di Total è invece una figura quasi repellente, un approfittatore finto-acculturato che biasima la condotta del figlio, ma non si fa problemi a gustare le ricchezze che gli procura; tanto che il finale è tutto per lui, dove ammette come, letteralmente, "il figlio sia stato come un padre per lui", ammissione di dipendenza della generazione più anziana da quella più giovane che oggi appare quasi come un monito verso un'Italia dove la generazione più vecchia ha praticamente fagocitato i propri figli.
Il teorema di Petri e Pirro è dunque semplice e riuscito: nel capitalismo esiste solo il furto e la società, di conseguenza, non è che una forma di stato di natura nel quale l'essere umano è solo apparentemente schermato e protetto dalle angherie del più forte.
Laddove La Proprietà mostra un limite, è nella costruzione dello script, il quale si frammenta tra i vari punti di vista dei personaggi dilatando inutilmente i tempi e senza che la vicenda ne guadagni in effettiva profondità. Il racconto è così sconnesso, diviso in una serie di macroepisodi che alternano le vicende di Total a quelle del Macellaio e di Albertone, senza che il tutto si amalgami in modo corretto.
Il risultato è un'opera grottesca che graffia, ma non fino in fondo, dove la cattiveria, pur sempre presente, non raggiunge i livelli ai quali l'autore ci ha abituato. Semmai è singolare constatare le differenze tra questo terzo capitolo dell'ideale trilogia e le opere precedenti di Petri: qui i personaggi non sono sessualmente repressi, non agiscono per sfogare una sessualità inconscia, ma per una volta sono spinti da altre urgenze. Totale e il Macellaio sono anzi sessualmente voraci, a differenza di molti dei protagonisti del cinema del compianto autore romano.
Rivisto oggi, La Proprietà resta un'opera dall'assunto sicuramente condivisibile, ma che nel contesto di un'Italia regredita sia sul piano economico che sul quello culturale, appare irrimediabilmente figlia dei suoi tempi.