lunedì 30 giugno 2025

La Proprietà non è più un Furto

di Elio Petri.

con: Ugo Tognazzi, Flavio Bucci, Daria Nicolodi, Salvo Randone, Mario Scaccia, Gigi Proietti, Orazio Orlando, Julien Guimar, Cecilia Polizzi.

Italia, Francia 1973



















Agli inizi degli anni '70, il nome di Elio Petri rientrava tra quelli dei cineasti italiani più riveriti. Certo, non era sicuramente una superstar internazionale il cui stile veniva copiato e omaggiato ogni dove come Federico Fellini o Sergio Leone, ma le sue opere avevano lo stesso suscitato un fortissimo interesse verso il cinema dell'impegno civile nostrano e non solo per i canonici "motivi di attualità", come l'Oscar per il miglior film straniero a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e la Palma d'Oro per La Classe Operaia va in Paradiso potevano dimostrare. E nonostante il suo sostegno a Lotta Continua, con la clamorosa firma contro Luigi Calabresi, la sua carriera non ha subito ostracismi di sorta, pur in un periodo a dir poco rovente per l'Italia tutta, per lo meno a inizio di quello che sarà, malauguratamente, l'ultimo decennio della sua carriera.
La Proprietà non è più un furto arriva nel 1973, a chiusura di quella che a posteriori è stata definita come "la Trilogia delle Nevrosi" incorporando i due film precedenti. Tre film che trattano tematiche differenti, ma che hanno come leitmotiv un protagonista in preda all'ossessione e ai limiti della pazzia. Ne La Proprietà esso non è però interpretato dal fido Gian Maria Volonté, bensì da un giovane Flavio Bucci, giustapposto ad un magnifico Ugo Tognazzi nei panni del "cattivo", il quale caratterizza il suo personaggio in modo sgradevole e usando un registro più vicino al metodo, avvicinandosi ad esso anche fisicamente. Ma La Proprietà non è davvero incentrato sul personaggio di Bucci, quanto sui rapporti tra i vari personaggi, i quali rappresentano le dinamiche di potere nell'Italia capitalista che fu.

















La proprietà è un furto e l'ossessione per il possesso, per l' "avere" è divenuta causa di vita dell'essere umano. Tale è l'assunto marxista su cui il film si basa e che porta in scena in modo acido.
Se la proprietà è un furto, perché il sistema capitalistico si basa sullo sfruttamento del lavoro altrui, allora gli imprenditori non sono che ladri; ciò è ancora più vero in una società dove gli imprenditori sono sovente dediti al malaffare, come quella italiana. 
Tali concetti sono incarnati in primis nel personaggio di Tognazzi, il macellaio/speculatore privo di un vero nome, poi dal personaggio di Paco l'Argentino, interpretato da Gigi Proietti, che compare in un simpatico cameo verso il finale, ladro di professione che elogia il defunto collega Albertone (Mario Scaccia), stabilendo come l'intera società stia in piedi proprio grazie alla presenza dei ladri, il cui apporto è necessario al relativo funzionamento; senza di loro, poliziotti, giudici, avvocati e assicuratori non avrebbero lavoro.
Il Macellaio, d'altro canto, è semplicemente l'incarnazione dell'imprenditore-tipo dell'epoca: un uomo sgradevole e innamorato del lusso, che usa la sua superiorità plutocratica per sottomettere chiunque; per lui tutti possono essere comprati e ciò che non può essere posseduto va distrutto.











Nel concetto di proprietà rientra anche la donna: mera res che nell'Italia degli anni '70 (e non solo) è ancora un orpello da esibire e oggetto da concupire; da cui il personaggio di Anita, interpretato dalla compianta Daria Nicolodi al suo esordio. Anita è una donna-oggetto in tutti i sensi, tanto che lo stesso Petri insiste sul suo corpo nudo: è oggetto della contesa tra il Macellaio e il ragioniere Total, ma è anche un puro strumento di piacere sessuale, tanto che ella stessa non esita a definirsi come una "operaia" che lavora al servizio delle pulsioni sessuali del suo compagno.
Il centro nodale della dinamica tra i personaggi è ovviamente il ragioniere Total, del quale Flavio Bucci incarna perfettamente lo status di "sottomesso" con una performance che fa della fisicità il suo pezzo forte.


















Total è un inetto, un altro esempio di "Fantozzi ante literam" dopo Il Maestro di Vigevano, il quale lavora come impiegato in banca, ma è allergico al denaro a causa di una sorta di ipocondria che ne ha causato tale singolare idiosincrasia. Allergia che si spiega in modo semplice: sa di non potersi arricchire, dunque sviluppa un'avversione per l'oggetto del desiderio come meccanismo di difesa inconscia.
Il furto diventa così atto di ribellione nei confronti di un sistema che tende a privilegiare solo chi sfrutta il prossimo e chi approfitta della buona fede altrui. Un furto usato per vendicarsi di colui che sta al vertice della scala sociale, ossia il Macellaio, con il quale avvia una lotta mirata a spogliarlo di ogni avere.
Una rivincita sociale? Non proprio. Petri e Ugo Pirro guardano a questo personaggio in modo poco positivo: non è una vittima da compatire come Lulù Massa, quanto il perfetto prodotto della cultura dell'affermazione individuale, un essere plasmato per essere sottomesso, ma che non vuole davvero emanciparsi dal sistema, non vuole lottare per avere davvero quanto di suo diritto in quanto lavoratore, piuttosto vuole avere una gratificazione immediata ed effimera. Da cui lo status di "marxista mandrakista" che fa sparire la proprietà altrui per il proprio benessere; un ladro anch'egli, al pari di chi lo sfrutta, benché guidato dalla necessità piuttosto che dalla cupidigia.
Le altre tre figure della dinamica sono più particolari. Albertone è il classico ladro di mestiere, un uomo che vive alla giornata e che usa il furto per sopravvivere, simbolo di come persino i ladri siano sottomessi ai meccanismi capitalistici quando si tratta di avere a che fare con i ricettatori; il brigadiere Pirelli è il classico esempio di uomo di leggi il quale usa la violenza per intimidire i sospetti, anch'egli parte di un meccanismo più grande del quale a suo modo resta schiacciato, una figura praticamente inedita nel cinema di Petri, soprattutto se si pensa a come descriveva le forse dell'ordine in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Il padre di Total è invece una figura quasi repellente, un approfittatore finto-acculturato che biasima la condotta del figlio, ma non si fa problemi a gustare le ricchezze che gli procura; tanto che il finale è tutto per lui, dove ammette come, letteralmente, "il figlio sia stato come un padre per lui", ammissione di dipendenza della generazione più anziana da quella più giovane che oggi appare quasi come un monito verso un'Italia dove la generazione più vecchia ha praticamente fagocitato i propri figli.












Il teorema di Petri e Pirro è dunque semplice e riuscito: nel capitalismo esiste solo il furto e la società, di conseguenza, non è che una forma di stato di natura nel quale l'essere umano è solo apparentemente schermato e protetto dalle angherie del più forte.
Laddove La Proprietà mostra un limite, è nella costruzione dello script, il quale si frammenta tra i vari punti di vista dei personaggi dilatando inutilmente i tempi e senza che la vicenda ne guadagni in effettiva profondità. Il racconto è così sconnesso, diviso in una serie di macroepisodi che alternano le vicende di Total a quelle del Macellaio e di Albertone, senza che il tutto si amalgami in modo corretto.
Il risultato è un'opera grottesca che graffia, ma non fino in fondo, dove la cattiveria, pur sempre presente, non raggiunge i livelli ai quali l'autore ci ha abituato. Semmai è singolare constatare le differenze tra questo terzo capitolo dell'ideale trilogia e le opere precedenti di Petri: qui i personaggi non sono sessualmente repressi, non agiscono per sfogare una sessualità inconscia, ma per una volta sono spinti da altre urgenze. Totale e il Macellaio sono anzi sessualmente voraci, a differenza di molti dei protagonisti del cinema del compianto autore romano.
Rivisto oggi, La Proprietà resta un'opera dall'assunto sicuramente condivisibile, ma che nel contesto di un'Italia regredita sia sul piano economico che sul quello culturale, appare irrimediabilmente figlia dei suoi tempi.

mercoledì 25 giugno 2025

28 Anni Dopo

28 Years Later

di Danny Boyle.

con: Alfie Williams, Jodie Comer, Aaron Taylor-Johnson, Ralph Fienness, Jack O'Connell, Erin Kellyman, Sam Locke, Emma Laird.

Horror

Regno Unito, Usa 2025














---CONTIENE SPOILER---

L'implosione della piccola casa di produzione Fox Atomic non ha certo causato chissà quali danni all'industria cinematografica americana, nella quale l'ascesa e caduta di piccole succursali delle major non è cosa rara. Forse l'unica vera conseguenza è stata l'arrivo di 28 Anni Dopo a circa diciotto anni di distanza da 28 Settimane Dopo, primo sequel del cult di Danny Boyle 28 Giorni Dopo del 2002, ad oggi tra i suoi film più apprezzati in assoluto e unico altro cult assodato nella sua carriera dopo il generazionale Trainspotting.
Un rimando che però ha permesso proprio a Boyle e ad Alex Garland, qui di nuovo nelle vesti di sceneggiatore, di rimettere mano alla loro creatura, dopo che Juan Carlos Fresnadillo aveva fatto un lavoro a dir poco dimenticabile con il precedente film. Une benedizione in incognito? In realtà no, perché questo terzo film della serie sui rabbiosi inglesi oscilla costantemente tra l'insipido e l'urticante.



















Sono passati ventotto anni dall'inizio dell'epidemia di rabbia che ha sconvolto il Regno Unito e la piaga non ha fatto che diffondersi a dismisura per tutta l'isola. I sopravvissuti vivono asserragliati in sparuti villaggi-fortezza, mentre le campagne sono in mano agli infetti. 
In un isola della Scozia, il giovane Spikey (Alfie Williams) viene avviato alla caccia dal padre Jamie (Aaron Taylor-Johnson), episodio che ne sancisce l'ingresso nell'età adulta in una società riplasmatasi per sopravvivere all'apocalisse. La madre, Isla (Jodie Comer), tuttavia, soffre di un morbo sconosciuto che rischia di ucciderla. Forse potrebbe aiutarla il misterioso dottor Kelson (Ralph Fienness), il quale vive a qualche chilometro nell'entroterra, circondato da un misterioso incendio...






















La sceneggiatura di Garland è quanto di più pigro si possa immaginare. Tutta la storia, il romanzo di formazione del giovane Spikey, è sconclusionata e non solo per quel finale aperto, preludio ad un "secondo" capitolo le cui riprese si sono concluse pochi giorni fa; per tutta la durata del film si ha la sensazione che manchi qualcosa, che la catarsi, la quale arriva nella scena del memento mori, l'unico vero punto emotivo del film, non sia davvero risolutoria.
Questo perché Garland setta male gli elementi di base, il conflitto da Spikey e il padre. Un conflitto che poggia sulla volontà dell'uomo di non prendere contatti con il medico, interpretata dal figlio come infedeltà, vista anche la "scappatella" della notte prima. L'avvio della fuga dall'isola è così forzata, con un figlio che si ritrova letteralmente "dalla sera alla mattina" in conflitto con un genitore il quale fino a qualche ora prima era il suo pilastro umano e materiale, con tanto di coltello puntato alla gola in maniera gratuita e forzata.
















La caratterizzazione del conflitto umano è solo una delle ingenuità che Garland commette. Per tutto il film, costella la storia di simbolismi religiosi: l'incipit, che trova un continuo effettivo solo nell'epilogo, con il padre-monsignore che inneggia all'apocalisse, il tempio delle ossa con tanto di altare cerimoniale, la notte passata nei resti di una cattedrale; simbolismi che non trovano mai un giusto significato, non preludono a nulla e danno la sensazione di essere inseriti solo per cercare di dare al tutto una profondità che in realtà manca costantemente.
Al di là del vacuo simbolismo cristiano, Garland e Boyle sembrano voler tracciare un parallelo "romeriano" tra l'isolazionismo militarista della post-apocalisse e il colonialismo britannico degli inizi del XX secolo (la recita di "Boots" di Kipling usata per scandire l'inizio della caccia, già divenuta cult, così come i filmati di repertorio). Ma il parallelo risulta davvero impietoso visto il contesto fantastico del film, il quale non riesce mai davvero a trasmettere il senso di violenza bigotta che vorrebbe. La quale viene evocata anche in qualche sparuto rimando al folk horror, con tanto di maschere indossate dagli isolani, i quali divengono quasi delle versioni distopiche dei pagani di The Wicker Man, senza però che nessun vero significato riesca a trasparire, visto che il contesto apocalittico viene utilizzato male dagli autori. Cosa che diventa praticamente insostenibile nel finale, con l'ingresso in scena degli "hooligan" che si divertono a massacrare gli infetti: non si può pretendere di provare pietà per i mostri se per tutto il film vengono caratterizzati esclusivamente come una minaccia, persino quando un elemento di trama quasi essenziale riguarda la possibilità di una loro guarigione (e qui Garland ben avrebbe fatto a riguardarsi La Terra dei Morti Viventi).
Dulcis in fundo: quasi ogni situazione di pericolo viene risolta grazie all'uso di un deus ex machina che salva i personaggi, prova di come Garland non si sia voluto sforzare più di tanto per dare vera dinamicità alle scene.


















Uno script che, in buona sostanza, predilige lo stile ai contenuti. Un difetto che ritorna anche nella messa in scena di Danny Boyle.
Se nel primo film optava per uno stile brutale fatto di inquadrature sghembe e sgrammaticate, montaggio veloce e immagini a bassa risoluzione per restituire il senso di disperazione e desolazione del mondo nel quale i personaggi si muovevano, qui Boyle gira tutto con un iPhone 15 Pro Max e intercala le classiche inquadrature ruvide con virtuosismi a là Wachosky per le scene  più concitate. Il risultato non solo è la più totale mancanza di tensione, data da un ritmo sempre alto, ma anche in una spettacolarizzazione inutile dello splatter, il quale non riesce mai davvero ad essere disturbante, solo spettacolare, con frattaglie e geyser di sangue che eruttano dai mostri, per di più giustapposti a musiche pop che creano uno stile praticamente punk che trasforma il tutto in sorta di commedia gore dove però tutti sono serissimi.
Quando poi ci si accorge che ogni elemento caratterizzante è ripreso da qualcos'altro, in un trionfo totale di derivatività assortita, il senso di disagio si fa forte: impossibile non vedere nella coppia padre-figlio che vanno a caccia armati di arco in un mondo post-apocalittico l'influenza di The Last of Us, sia il gioco che la serie, e quindi di rimando del The Road di Cormac McCarthy e John Hillcoat; impossibile non rivedere nell'infetto alfa un rimando a L'Attacco dei Giganti, soprattutto quando insegue i protagonisti fino alle mura esterne del villaggio. 


















28 Anni Dopo vorrebbe così essere un dramma umano immerso nei meandri dell'inferno post-apocalittico, ma mostra il fianco sia quando si tratta di caratterizzare i personaggi umani in modo credibile, sia quando si tratta di dare un significato più profondo al contesto fantastico. Un passo indietro per Boyle e Garland, il cui primo exploit resta tra i loro lavori più riusciti, nonché un episodio davvero poco riuscito di una serie che si appresta a divenire l'ennesimo caso di "telefilm al cinema", la quale poco o nulla può davvero dare allo spettatore avvezzo al cinema di genere.

lunedì 23 giugno 2025

Cobra Verde Recensioni Cinema diventa Orizzonte d'Argento




Cobra Verde cambia pelle.

I motivi sono diversi. 

In primis la volontà di allontanarmi dalla figura di Klaus Kinski.

Sebbene non rientri in quel gruppo di persone che tendono a "cancellare" chi ha commesso atti deprecabili, non posso continuare ad ignorare la vita privata del fu Kinski, la quale è stata deprecabile a dir poco, dunque prenderne le distanze è forse la cosa migliore da fare.

C'è poi la necessità di svecchiare in parte il format del blog. 
Non si parla di grossi stravolgimenti, quanto della volontà di diversificare l'offerta al lettore. Forse, tempo permettendo, affiancandovi anche un canale YouTube con contenuti a parte.

Se volete quindi leggere le pagine di Cobra Verde, a partire dal prossimo lunedì cercate Orizzonte d'Argento all'URL: orizzontedargento.blogspot.it.

lunedì 9 giugno 2025

Predator: Killer dei Killer

Predator: Killer of Killers

di Dan Trachtenberg e Joshua Wassung.

Animazione/Azione/Fantastico/Splatter

Usa 2025


















I fan di Predator possono dormire sogni tranquilli: da quando Disney ha resuscitato il brand con Prey, sembra che l'interesse verso gli smembramenti del cacciatore alieno più famoso di sempre sia risorto. E quando si tratta di spremere un brand, si sa che Disney la fa da maestra. Ecco quindi che solo quest'anno escono ben due prodotti con il marchio Predator: Badlands, previsto per novembre, oltre che questo Killer of Killers; ed entrambi sviluppati dal Dan Trachtenberg di Prey.
Killer of Killers segna poi un ulteriore primato, ossia il primo prodotto d'animazione dedicato al cacciatore Yautja, oltre che uno dei primi lungometraggi ad essere sviluppati totalmente con l'Unreal Engine. E se l'animazione è tutto sommato di buona fattura, persino al netto di uno stile grafico che a prima vista sembrerebbe stonare con la storia che racconta, questo cartoon lascia perplessi come sempre per una scrittura tutt'altro che brillante.














Scrittura che poggia su di una costruzione ad episodi: tre storie ambientate in tre epoche diverse, con un ultimo atto che riunisce i tre protagonisti, ossia Ursa, una feroce guerriera vichinga, Kenji, spadaccino ed erede reietto del titolo di samurai, oltre che Torres, giovane pilota americano della Seconda Guerra Mondiale.
Una struttura che non può che far credere che questa operazione all'inizio fosse pensata per una serie, ma che sia stata rimaneggiata in corso d'opera come lungometraggio ad episodi, come successo qualche anno fa con lo sfortunato Books of Blood, sempre prodotto da Disney per la piattaforma Hulu. E le dichiarazioni di qualche giorno di Tony Gilroy, secondo le quali Disney pare abbia affermato come "lo streaming sia morto", non possono che cementificare tale impressione.



















Struttura a parte, la vera perplessità sulla scrittura di Killer of Killers riguarda la caratterizzazione dei personaggi. Passi anche che Torres si comporti in maniera irrazionale perché è un giovanissimo pilota, ma sentirlo parlare come un teenager moderno fa cascare un po' le braccia. 
Meno buoni si può essere verso la storia di Kenji, in cerca di vendetta verso il fratello il quale si è semplicemente limitato a seguire gli ordini del tirannico padre, in un contesto storico, quello del Giappone del XV secolo, dove difficilmente un nobile che decide volontariamente di contravvenire alle direttive del genitore sarebbe sopravvissuto al peso della vergogna.
Più particolare è il caso della vichinga Ursa, condottiera donna in un mondo dove benché alle donne fosse concesso di combattere al pari degli uomini, difficilmente sarebbe riuscita a guidare una razzia. Il tutto mosso anch'esso dalla solita vendetta per un torto subito in gioventù, tanto che poi la storia di Torres, "semplice" soldato che si fa valere in battaglia, finisce per risultare fresca, ma, al contempo, anche per stonare. Va da sé che nel suo passare da cattiva irredenta e ultraviolenta a figura materna, paradossalmente è proprio Ursa ad avere la caratterizzazione più sfaccettata, restando pur sempre un personaggio estremamente antipatico. Di converso, fa davvero ridere vedere un pilota della Seconda Guerra Mondiale che impara a pilotare veicoli alieni nel corso di una manciata di secondi.


















Killer of Killers cerca poi di fare chiarezza sulla mitologia degli Yautja, stabilendo come non siano semplici cacciatori in cerca di facili trofei, ma dei "killer di killer" appunto, cacciatori di assassini, il che cozza con lo status di soldati sia della gran parte dei personaggi dei precedenti film, sia con quello di, sempre lui, Torres e i suoi commilitoni: possibile che una specie tecnologicamente avanzata e con il culto dello scontro armato non sappia distinguere tra soldati e assassini?
Tutti difetti di scrittura imputabili non solo (e forse non tanto) a quel Trachtenberg fortemente convinto del fatto che i Comanche fossero così stupidi da aver scoperto la caccia sugli alberi solo nel XVIII grazie ad una ragazzina agitata, quanto al co-sceneggiature Micho Robert Rutare, qui alla sua prima ventura nelle produzioni di serie A e con un curriculum di lungo corso nella peggiore serie B.
















Alla fine, Killer of Killers regala ai fan quello che vogliono, ossia circa un'ora e mezza scarsa di cacciatori alieni che sventrano tipi tosti, qui con un livello di violenza inedito per la serie, pur da sempre caratterizzata da forti dosi di splatter. Se ci si accontenta di così poco, lo si potrebbe anche apprezzare, altrimenti non si può che ridere davanti ad una scrittura adolescenziale, anche quando bilanciata da una messa in scena di buona caratura.

giovedì 5 giugno 2025

Diva Futura

di Giulia Louise Steigerwalt.

con: Pietro Castellitto, Barbara Ronchi, Tesa Litvan, Denise Capezza, Lidija Kordic, Alfonso Postiglione.

Biografico/Drammatico

Italia 2024 












E' possibile rievocare con nostalgia gli esordi del porno italiano senza sembrare ipocriti, ora che viviamo tra le macerie del berlusconismo e con i postumi del culto dell'apparire?
Perché creare un biopic su Riccardo Schicchi e la sua casa di produzione, Diva Futura, solleva immediatamente tale cocente quesito. E questo, ovviamente, perché l'Italia nella quale Schicchi iniziò la sua carriera è stata immediatamente spazzata via assieme alla DC, sostituita dallo sfruttamento delle forme femminili a fini commerciali in quella televisione che tanto le ostracizzava, nonché dall'esaltazione della voracità sessuale maschile reindirizzata verso il consumo compulsivo di qualche prodotto.
Benché pioniere, Schicchi è stato sostanzialmente sorpassato da chi ha avuto le sue stesse intuizioni, ma ha saputo applicarle allo spettacolo mainstream, con conseguenze disastrose sul piano culturale e sociale.
Giulia Louise Steigerwalt, attrice e sceneggiatrice di lungo corso e qui al suo secondo lungometraggio, forse è cosciente di tale aspetto, così come dei molti lati oscuri della sua figura umana, per questo struttura il suo Diva Futura come una commistione tra rievocazione e dramma puro, finendo per creare un'opera fatalmente debole e persino poco sincera.





















Un film, il suo, scisso in due parti distinte. La prima, forse la più riuscita, è una rievocazione dei primissimi anni di Diva Futura e dell'avvento delle sue star, Ilona Staller, Moana Pozzi e in parte Eva Henger, oltre che dell'ingresso nell'azienda di Debora Attanasio, inizialmente segretaria e collaboratrice di Schicchi. Una rievocazione "scorsesiana", che condensa l'ascesa al successo e l'imposizione nel costume nazionale con un montaggio veloce, movimenti di macchina fluidi e musica pop. 
Lo Schicchi qui ritratto è un libertino a-morale, mai immorale, un uomo che ha il culto delle forme femminili e detesta ogni forma di maschilismo. Il nudo diventa così celebrazione ma anche liberazione di una donna che la società conservatrice ancora vuole a-sessuato. Il che è anche in parte vero: benché il filone del "chiappa e spada" imperasse nei cinema e anche nel cinema "impegnato" il nudo in Italia non mancasse mai davvero, la rivoluzione sessuale, alla fine degli anni '70, non aveva portato ad una vera forma di emancipazione femminile, con la donna che doveva essere sempre e comunque vista come madre e moglie, pena lo scandalo.
L'altra faccia di una tale celebrazione è, appunto, quella di farla sembrare una forma nostalgica di un mondo che sembra appartenere ad un'altra era geologica. Nel XXI secolo, l'Italia è forse l'unico Paese rimasto al mondo dove si è fin troppo celebrata la liberazione sessuale e l'esaltazione mediatica del corpo femminile e quelle immagini di belle donne libere di spogliarsi non possono più essere viste come liberatorie, né come il simbolo di una ribellione della donna contro una visione sociale di stampo patriarcale che le vuole solo come madri e mogli. Per intenderci: dopo le veline, le letterine, le paperette e Flavia Vento messo sotto il tavolo di Teo Mammuccari (tra l'altro citato nello stesso film), il nudo e il porno, in Italia, non sono che la celebrazione della fantasia maschile e nulla più.
E' per questo che, dopo circa un'ora, Diva Futura cambia pelle e si muove verso i canonici territori del drammone all'italiana.


















In questa seconda parte, la Steigerwalt condensa tutti i drammi che hanno afflitto Schicchi fino alla sua tragica morte: il collasso dell'industria del porno in video, la crisi coniugale, la malattia. Con lui, in parallelo, assistiamo anche ai drammi di Moana, anch'ella segnata dalla crisi artistica e politica fino alla morte prematura per malattia, e, in tono minore, a quelli della Staller, segnata dal conflitto per l'affidamento del figlio, oltre che del tragico ingresso di Eva Henger nell'industria del cinema a luci rosse.
Il tono cambia radicalmente e ogni scena viene porta su schermo nel modo più ovvio, con gli attori che si scambiano battute sulla tragedia di turno. Scrittura e messa in scena divengono quindi irrimediabilmente convenzionali, tanto che l'unico tocco di classe continua ad essere anche qui la ricostruzione dei filmati di repertorio con gli attori, oltre che il lavoro degli attori. Il fianco, tuttavia, il film lo scopre davvero quando si incarta tra flashforward e flashback, appaiati talvolta in modo arbitrario, ma soprattutto quando decide di affrontare il tema, scottante, su come lo sdoganamento della pornografia abbia cambiato la società italiana.





















Sarebbe stato interessante declinare la carriera di Schicchi sulla falsariga del deperimento del costume italiano. Ovviamente non si può giudicare (più di tanto) un film per quello che non fa, ma qua e là Diva Futura sembra anche voler ritrarre il cambiamento di costume che, volente o nolente, la diffusione dell'erotismo spicciolo ha generato. 
Assistiamo così alla scena nella quale Schicchi scopre come esistano generi di pornografia del tutto disgustosi, che umiliano la donna per il ludibrio del pubblico maschile e come questi prodotti, bene o male, siano stati generati indirettamente proprio dopo che il pubblico si è assuefatto all'eros "pulito" che lui vendeva. Il consumo di pornografia porta inevitabilmente alla degenerazione morale diffusa? Un quesito spinoso, che il film evoca, ma subito mette da parte in favore del territorio sicurissimo del dramma umano.
Allo stesso modo, assistiamo all'esordio nella pornografia internazionale di Eva Henger, esperienza che lei stessa ha definito come traumatica. L'industria dell'eros finisce così per sfruttare quei corpi fino a distruggerli? Anche questa tematica viene sollevata solo per essere subito messa da parte, forse per paura delle risposte, le quali potrebbero essere davvero scomode e far sembrare lo stesso Schicchi come uno sfruttatore, cosciente o meno che fosse.
Di fatto, la degenerazione del costume italico viene suggerita, ma mai davvero affrontata: si, il costume è cambiato, si, il costume è cambiato in peggio; la colpa è di Schicchi e di quelli come lui? Può darsi di si, può darsi di no, chi lo sa. Quando poi ci si accorge che la figura di Silvio Berlusconi viene evocata solo ed esclusivamente per datare temporalmente la morte di Moana Pozzi, ci si rende conto di come forse sarebbe stato meglio prendere una distanza chirurgica da determinati quesiti, lasciandoli magari fuori dal discorso. Soprattutto quando, nel finale, si torna alla celebrazione dell'eros libero e gioioso, in quella che appare una chiusa davvero poco sincera.




















"Questione morale" a parte, il ritratto di Schicchi che emerge è anch'esso contraddittorio. Per tutto il film viene celebrato come un pioniere e ritratto come una vittima dei falsi moralismi italiani, soprattutto nella scena dell'arresto, che si imputa al suo ruolo di produttore pornografico. Arresto che nella realtà è avvenuto nel 2007, periodo nel quale di certo un ruolo del genere non poteva generare scandalo, né nel quale il suo arresto potesse essere un modo per "silenziarlo" o eliminarlo dalla concorrenza. Il film però scopre le carte solo nell'ultima scena, sui titoli di coda, quando si da atto delle accuse e delle condanne, le quali non hanno nulla a che vedere con la morale o con il costume.
Un ritratto che più che ambiguo, si fa contradditorio, che forse vuole essere controverso come controversa fu di fatto la sua figura, ma che più che nell'ambiguità finisce per sprofondare nella schizofrenia. Questo perché forse era impossibile fare un ritratto del tutto assolutorio di Schicchi, ritrarne le luci senza ritrarne le ombre. Prendere una posizione ambivalente porta inevitabilmente alla contraddizione e, anche qui, meglio sarebbe stato ritrarlo con il giusto distacco.





















Diva Futura è così un'opera sicuramente interessante, ma malriuscita, che alterna una prima parte ispirata ad una seconda fiacca, ovvia e contraddittoria. A salvarsi è così solo il cast, con un Pietro Castellitto affiatato, una Barbara Ronchi perfettamente in parte e con una Denise Capezza che, sebbene non somigli più di tanto alla vera Moana, riesce a riprodurne perfettamente la solarità e il carisma.