martedì 29 luglio 2025

I Fantastici 4- Gli Inizi

The Fantastic Four: First Steps

di Matt Shakman.

con: Pedro Pascal, Vanessa Kirby, Ebon Moss-Bachrach, Joseph Quinn, Julia Garner, Ralph Ineson, Natasha Lyonne, Paul Walter Hauser, Sarah Niles, Mark Gatiss.

Fantastico/Supereroistico

Usa 2025











Ma è davvero così difficile fare un film decente sui Fantastici Quattro?
Certamente il concept è antiquato, non per nulla la relativa testata è stata praticamente la prima che il dio dei comic Jack Kirby creò per l'allora neonata Marvel Comics. Senza contare come l'idea di una famiglia di supereroi con superproblemi è stata portata al cinema in modo definitivo da Brad Bird con il bel Gli Incredibili già nel 2004, con uno degli omaggi più sinceri al mondo dei supereroi che si siano mai visti.
Ma quando si tratta di portare sul grande schermo le imprese di quel primo supergruppo di famigliari affiatai e incasinati, ad Hollywood tremano i polsi e i risultati, fino ad ora, sono stati a dir poco imbarazzanti.



Si parte ovviamente con il mitico "bootleg" del 1994, orchestrato da Roger Corman per permettere al produttore Bernd Eichinger di mantenere i diritti di sfruttamento della testata. Il risultato è un film talmente brutto da diventare affascinante, ma non si può davvero essere cattivi con quello che è praticamente un mero obbligo contrattuale girato con un budget di appena un milione di dollari.



Si passa per i due exploit di Tim Story, datati rispettivamente 2005 e 2007.
Il primo, il quale è praticamente la prima vera incarnazione dei personaggi su grande schermo, porta la firma di Mark Frost sullo script, ma alla fine non è dato sapere quanto del lavoro dell'autore sia effettivamente arrivato su schermo. Perché quello giunto su schermo non è che una commedia che talvolta sfiora la parodia, un film che non riesce a prendere sul serio i personaggi neanche quando vorrebbe scadere nel patetico e che li fa muovere nella più ovvia delle origin-story nella quale persino l'arcidemonio Dottor Destino diventa una macchietta da strapazzo.
I Fantastici 4 e Silver Surfer è invece il perfetto esempio di potenziale sprecato. La storia è anche interssante, con l'inclusione del villain Galactus come minaccia cosmica e quel Silver Surfer magnificamente trasposto in tre dimensioni. Ma sul tutto vige l'aura della superficialità, persino quando si è semplicemente chiamati ad imbastire un elementare spettacolo a base di effetti visivi e avventura. Sciattezza perfettamente simboleggiata dal design di Galactus, il quale non è quello classico, caratterizzato da colori sgargianti e forme pacchiane tipiche del tratto di Kirby, abbandonate in favore di un design semplicemente inesistente, dove la sua apparizione viene risolta con una nuvola parlante, ossia la vera e propria morte della creatività.



E poi c'è ovviamente il già mitologico Fant4stic di Josh Trank, un film dove semplicemente non funziona nulla e a confronto del quale persino il film di Corman acquista dignità. A Trank forse non interessava neanche dirigere un adattamento della superfamiglia di Kirby e Stan Lee e vedeva l'opportunità di lavorare per uno studio come una pura occasione lavorativa. Tanto che la sua mancanza di entusiasmo si avverte ad ogni fotogramma.
Si parte dall'estetica, semplicemente anonima: le tutine azzurre vengono scartate in favore di un tristissimo look nero che fa sembrare questo exploit fermo ai primi anni 2000; la fotografa lava via ogni colore in favore di una palette dove dominano grigio e nero. Ogni forma di leggerezza viene bandita, se non in sparutissimi inserti, e vengono persino inseriti alcuni risvolti horror, con la scoperta dei poteri di Mr. Fantastic che sembra uscita da un body horror e le stragi del Dr. Destino degne di un film di Stuart Gordon. A ciò va ovviamente aggiunta una trama che trama non è, con il supergruppo che si limita a formarsi e a sventare la minaccia di turno, imbastita all'ultimo momento per dare un climax al tutto. Tanto che alla fine, più che ad un film sembra di assistere ad un brutto episodio di una brutta serie televisiva.




Riottenuti i diritti di sfruttamento, Kevin Feige può finalmente fare suo il celebre gruppo e inserirlo nel multiverso MCU. E per farlo, decide di fare le cose in grande... per modo di dire.
First Steps è di fatto il perfetto esempio di film Marvel Studios degli ultimi anni, quantomeno sul piano produttivo. Dopo un lungo development hell, Feige opta per un regista televisivo anziché spendere soldi per un grosso nome la cui visione deve necessariamente adattarsi alla standardizzazione made in Marvel. La scelta cade su Matt Shakman, veterano del piccolo schermo che per Feige aveva già diretto qualche episodio di WandaVision, ma il colpo di scena è presto servito: per i Fantastici Quattro si opta per un look alternativo, giustificato dal fatto di non essere ambientato nell'universo Marvel principale, il che gli dona immediatamente una personalità distinta rispetto al mare magnum di prodotti fatti con lo stampino.
Ecco quindi il supergruppo muoversi in un mondo camp ricalcato sull'estetica dei primi anni '60, in ossequio alla Silver Age dei comic, cosa non originalissima, sia visto il recente Superman di James Gunn che, soprattutto, il bel X-Men- L'Inizio di Matthew Vaughn. Ed ecco, finalmente, i Fantastici Quattro indossare dei costumi del tutto simili alle loro controparti cartacee in un film che non sia l'exploit cormaniano del 1994.



L'estetica è anche il pezzo forte del film, il quale, per il resto, vive dei soliti difetti delle produzioni Marvel.
Su tutto, ovviamente uno script claudicante. Laddove i personaggi hanno carattere e grinta e i dialoghi funzionano, la storia presenta buchi dovuti alla classicissima filosofia secondo la quale ogni film deve essere un episodio. Ecco dunque lasciata in sospeso non solo la vera natura di Galactus, della sua fame e del suo ruolo di divoratore di mondi, praticamente uscito fuori dal nulla e nel nulla ritornato, ma soprattutto il ruolo di Franklin Richards, il figlio di Reed e Sue, il cui potere è praticamente il centro di tutto il film, ma che non viene mai davvero spiegato a chi non ha mai neanche sfiorato un albo a fumetti.



Se lo spettatore che non conosce la fonte d'ispirazione si trova così spaesato una volta immerso in una storia dove mancano gli elementi essenziali per il giusto funzionamento, potrebbe rifarsi con il puro spettacolo. Da questo punto di vista, il film non delude... più o meno.
Le sequenze spettacolari di certo non mancano, come l'arrivo alla nave di Galactus o il confronto finale; ma la mano di Shakman è sin troppo televisiva, tende a risolvere praticamente ogni singola scena con inquadrature strette, spesso i canonici primi piani, cosi che la spettacolarità viene fortemente contenuta.



Su tutto vige così una mancanza d'enfasi e di completezza che avvicina pericolosamente il film ai territori televisivi. Tanto che a tratti, la sensazione è proprio quella di guardare un lungo episodio di una serie o una serie di episodi che narrano l'ultimo story-arc di una stagione. Una serie certamente più curata da quella concepita da Josh Trank, ma una serie pur sempre.
Forse è proprio questo il punto d'arrivo della filosofia dei Marvel Studios: quando decidi di creare film in serie, tutti con la stessa fotografia e la stessa estetica, con sparutissime eccezioni, e finisci persino per assumere dei semplici mestieranti dietro la macchina da presa, il risultato non può che essere televisione sul grande schermo, con un biglietto per ogni singolo episodio.
Episodi che, come in questo caso, sono talvolta molto più che dignitosi, ma episodi pur sempre.

lunedì 21 luglio 2025

La Città Proibita

di Gabriele Mainetti.

con: Yaxi Liu, Enrico Borello, Shanshan Chunyu, Sabrina Ferilli, Marco Giallini, Luca Zingaretti, Paolo Buglioni.

Drammatico/Azione

Italia 2025
















Il tentativo di "italianizzare" il cinema di arti marziali non è certo una novità, anche se l'unico vero esperimento del genere è stato lo strambo Il mio nome è Shangai Joe di Mario Caiano, che già nel 1973 fondeva il kung fu con lo Spaghetti Western infarcendo poi il tutto con una carica splatter inusitata, sull'onda del successo che i film di Bruce Lee riscuotevano anche in Italia. E proprio la lunga ombra del Piccolo Drago è essenziale quando si parla di cinema di arti marziali in Italia, non solo per l'apprezzamento che i suoi exploit riscossero nei primi anni '70, quanto per l'immortale L'Urlo di Chen terrorizza anche l'Occidente che, con il suo duello finale nel Colosseo, resta tra gli esponenti più iconici del genere.
Se, quindi, non si è mai avuto un vero filone del "Maccheroni Kung Fu", non si può negare come la città di Roma rappresenti un setting eccellente per una storia di arti marziali. Cosa che il buon Gabriele Mainetti sa e forse proprio per questo ha cercato di forgiare il filone con La Città Proibita.
Un esperimento che, nella migliore tradizione del cinema di genere italiano, prende la lezione del cinema estero e la fa sua, ibridando i film di arti marziali con il dramma umano. Il risultato non ha sicuramente la forza di un Freaks Out, ma, anche al netto dei difetti, risulta davvero interessante.



La città proibita del titolo è il locale del mafioso Wang (Shanshan Chunyu), copertura per il traffico di esseri umani dalla Cina, nel quale irrompe la furibonda Mei (Yaxi Liu), alla disperata ricerca della sorella scomparsa. E che sorge ad un tiro di schioppo dal ristorante di Marcello (Enrico Borello), a sua volta taglieggiato dallo strozzino Annibale (Marco Giallini). I destini dei due finiranno inevitabilmente per incrociarsi.



Ma la città proibita è anche Roma, un luogo che "ti entra dentro e ti cambia", ma che a sua volta è cambiata: non più la patria degli Albertone e soci, è ora una metropoli multietnica, un crogiolo di volti e razze provenienti dai quattro angoli del globo, come in epoca classica.
La xenofobia innata della vecchia generazione diventa così il vero nemico, il rottame di un mondo passato perfettamente incarnato da un Marco Giallini sopra le righe, invecchiato con un make-up pesante per dare perfetto corpo ad una casta di fossili ambulanti la cui mentalità retrograda ha finito per distruggere il Paese prima ancora che sfruttare i più deboli.
Proprio il personaggio di Annibale è il fulcro della vicenda: un gangster che, come lo Zingaro, non è che un narcisista affamato di affermazione personale, un egoista la cui "fame" causa solo guai e che Mainetti si diverte a caratterizzare come una macchietta, come un personaggio da commedia le cui azioni però destabilizzano tutto e tutti.


Laddove la storia di Annibale e del figlio putativo Marcello è il classico dramma criminale, talvolta virato alla commedia, con cui Mainetti porta nel racconto un tocco di tipica italianità, di certo più interessante, per quanto classicissima, è quella di Mei.
Una storia che inizia quasi come l'Urlo di Chen, ma che diventa ben presto altro, pur restando confinata all'interno dei più puri canoni del filone, e che permette all'autore di portare in scena ottime coreografie nei combattimenti, splendidamente incorniciate dalla bella fotografia di Paolo Carnera, che sfoga tutta la sua vena creativa illuminando il locale di Wang e gli anfratti del sottobosco criminale, ma anche quel quartiere Esquilino notturno che sembra davvero uscito da un noir di altri tempi. A coronare il tutto, ci pensa la brava Yaxi Liu, già stuntwoman nel live-action di Mulan e marzialista di lungo corso, è semplicemente perfetta nel ruolo della fredda guerriera in cerca di verità.



Mainetti fonde così action, dramma e commedia, citando come ispirazione non tanto la bruceplotation, quanto il purtroppo misconosciuto Chocolate, film di arti marziali  tailandese del 2008 con la specialista JeeJa Yanin. Ma a differenza di questo bizzarro e bello exploit che lo ha ispirato, lui, purtroppo, a questo giro non riesce a tenere insieme tanti elementi così eterogenei.
Il film inizia benissimo, con una forma e un'estetica da tipico action hongkonghese e l'autore azzecca quel prologo con la rivelazione di come l'azione sia già ambientata in Italia e non in Cina. Ma piano piano la traccia narrativa di Marcello e Annibale prende sempre più spazio fino a fagocitare il resto, con la conseguenza che l'intero film finisce per avere una crisi di identità, divenendo un film di arti marziali dove sovente sia l'azione che la vera protagonista della storia vengono messi in secondo piano rispetto agli altri personaggi, i quali, per forza di cose, non riescono a tenere la scena a causa della loro caratterizzazione "tipicamente italiana". Perché se è vero che il vecchio gangster di mezza tacca di Giallini è sicuramente tanto spassoso quanto inquietante, lo stesso non si può certo dire del Marcello di Marco Borrello: tipico giovane uomo romano, tutto accento e famiglia, la sua storia è quella "tipicamente italiana", appunto, di un maschio schiacciato dal peso della famiglia e del lavoro, il quale si ritrova catapultato in una storia non sua e nella quale si muove a botte di battutacce, faccette e imprecazioni, di certo non il tipo di spettacolo che vale la pena barattare per un po' di sana azione. Soprattutto visto che, quando questa entra effettivamente in scena, di certo non delude. Mancanza di focus forse dovuta all'assenza del fido Nicola Guaglianone in sede di script, la cui penna era decisamente più vicina alla sensibilità di Mainetti rispetto a quella del duo Serino-Bises.



La Città Proibita vive così di due anime che non riescono a coesistere, dove quella italiana finisce per oscurare quella cinese togliendo in parte il divertimento, che in questo caso è anche il vero motivo di esistere del film. Mainetti firma un'opera certamente anticonvenzionale e, nel suo piccolo di film italiano, persino originale, ma che non ha di certo la forza dei due precedenti exploit che ne hanno reso celebre il nome, pur dimostrando lo stesso la sua solidità come puro filmmaker.

lunedì 14 luglio 2025

Superman

di James Gunn.

con: David Corenswet, Rachel Brosnahan, Nicholas Hoult, Edi Gathegi, Skyler Gisondo, Nathan Fillion, Isabela Merced, Marìa Gabriel de Farìa, Anthony Carrigan, Pruitt Taylor Vince, Neva Hawell, Sara Sampaio, Fank Grillo, Mikaela Hoover.

Superoistico/Fantastico/Azione

Usa 2025













Il DC Extended Universe è morto. E, va detto, contrariamente agli auspici, spesso violenti, dei redditers fan di Zack Snyder, non tornerà mai in vita.
Circa dieci anni dopo l'esordio in sala de L'Uomo d'Acciaio, l'esperimento dell'universo supereroistico condiviso di Warner e DC Comics si è rivelato un tonfo che ha quasi affossato la prima e fa ridere vedere oggi quei fanboys che non vogliono rassegnarsi alla sconfitta, quando, ad ogni singola uscita, magari erano proprio loro che criticavano ferocemente la visione di Snyder e soci.
Il nuovo DCU di James Gunn e Peter Safran esordisce ora con Superman Legacy, ribattezzato subito semplicemente Superman. Per Gunn è la prova del nove, dopo essere stato acclamato per la bella trilogia sui Guardiani della Galassia in casa Marvel e aver creato l'altrettanto bello The Suicide Squad per lo Snyderverse.
Un esordio che ha scatenato le solite polemiche di paglia nel fandom, che come sempre non ci perde nulla a massacrare un film basandosi su pochi fotogrammi dei trailer, oltre che a scatenare la perplessità degli spettatori durante le proiezioni test, tanto che Gunn ha dovuto rimettere mano al montaggio più volte, pare arrivando addirittura a cambiare l'intera struttura del film. Uscito in sala, nonostante i molti pareri positivi, ha poi finito per dividere il pubblico. Ed è del tutto normale che un film del genere, che non vuole scendere praticamente mai a compromessi nella sua visione, divida tutto e tutti.


Gunn, in buona sostanza, unisce il classico al moderno, in questa sua lettura del personaggio.
Dal passato torna la visione coloratissima e un po' camp del mondo dei supereroi, che lui riesce a portare in scena in modo serio senza scadere nel ridicolo involontario o nel pretenzioso, come già faceva in The Suicide Squad. Al bando supertizi in abiti scuri e dal cipiglio depresso, ecco arrivare su schermo gli assistenti robot di Kal-El nella Fortezza della Solitudine o il simpatico cagnolino Krypto, ma anche quel Metamorpho il cui design è praticamente lo stesso dei fumetti della Silver Age, compreso il bizzarro accostamento di colori. Allo stesso modo, tornano tutti i concetti più strambi, come gli universi tasca e l'esistenza di molteplici forme di superpoteri e di forme di vita aliena, che Gunn introduce con nonchalance, senza aspettare seguiti o spin-off.
Nel mondo del Superman del 2025, i supereroi esistono da generazioni e il mondo si è abituato a crisi dimensionali e invasioni aliene. Gunn non insulta l'intelligenza dello spettatore, che al pari degli abitanti di Metropolis conosce concetti del genere da almeno 25 anni. Tanto che omette persino il solito racconto di origini per concentrarsi direttamente su storia e personaggi.



Proprio storia e personaggi rappresentano la parte moderna del film.
Tutta la trama prende le mosse dal fatto che Superman si permetta di interferire in un'invasione programmata di uno stato dell'est Europa ai danni di un altro e non c'è neanche bisogno di specificare a cosa in realtà Gunn si riferisca. Il personaggio di Superman diventa così il paladino degli oppressi, non solo dei deboli, un eroe che non ha confini e non si piega alle logiche moderne, non a quelle dell'inerzia politica, tantomeno quelle che vorrebbero gli eroi come dei semplici brand delle aziende, con la Justice League che diventa praticamente un esercito privato.
Un Superman che diventa qui ancora più umano, piegato dai sensi di colpa derivanti dalle sue azioni, insicuro sul fatto che il suo ruolo nel mondo sia effettivamente positivo, ma che nonostante tutto si batte per un ideale di giustizia che non conosce distinzioni, cosa che riporta il personaggio praticamente alle sue origini, persino quando si decide di rileggere il ruolo dei Kryptoniani (cosa che probabilmente verrà rettificata nei seguiti), un pacifista che sfida tutto e tutti in nome del suo ideale. Tanto che non si può reagire con un sorriso amaro quando questo Superman esclama che essere buoni in un mondo di cattivi è la cosa più punk possibile.
Laddove Superman incarna (nuovamente) il meglio dell'umanità, Lex Luthor anche al cinema diventa l'incarnazione del peggior lato dell'essere umano, un omuncolo che, nonostante l'intelligenza superlativa, è schiavo dei peggiori vizi umani, ossia la megalomania e l'invidia. Lo scontro tra i due diviene quello tra i due poli opposti dell'uomo, oltre che quello tra due persone dai grandi talenti, ma dall'insicurezza altrettanto grande. Entrambi restano sempre ancorati ai ruoli di superbuono e supercattivo, non ci sono scale di grigio, si tratta pur sempre di un racconto supereroistico, ma pur senza strafare, Gunn rende credibili queste due figurine, proprio perché fa leva sulla loro estrema umanità; che nel caso di Superman, diviene ancora più marcata, riportandolo alla visione che Donner e Reeve avevano del personaggio. E nonostante si odano anche le fanfare di John Williams, richiamate in servizio perché oramai indissolubilmente legate al personaggio, non siamo dalle parti di un Superman Returns: qui c'è il rispetto per il passato, ma non la sua feticizzazione.


Se nella scrittura Gunn crea così un perfetto distillato del personaggio, nella messa in scena fa anche di più e porta su schermo tutte le possibili situazioni nelle quali lo spettatore può immaginare l'Uomo d'Acciaio. Ecco dunque Superman combattere contro un kaiju nel centro di Metropolis, prendere a cazzotti una sua nemesi, volare tra gli universi e interagire con altri superuomini, oltre che ad intrattenere una tormentata storia d'amore con una Lois Lane agguerrita, perfettamente incarnata dalla bellissima Rachel Brosnahan. E persino l'amico Jimmy Olsen qui diventa parte attiva del racconto e sveste i panni del "simpatico sfigato" per divenire un vero e proprio tombeur des femmes, in un'inversione ironica che paradossalmente finisce per funzionare a dovere.
Gunn paga certamente quando si tratta di infilare tutti gli elementi possibili in una storia di poco più di due ore, con lo script che spesso risulta didascalico, soprattutto nei primi minuti; ma la sua visione è certamente coerente e spettacolare.


Tanto che alla fine, non sarebbe sbagliato definire quello di James Gunn come IL film di Superman: qui c'è tutto ciò che ha reso celebre e amato il personaggio, cucito in una confezione spettacolare dove però il racconto non cede mai passo agli effetti.
E' normale detestarlo: chi è abituato agli eroi DC come personaggi depressi e violenti non potrà che inorridire davanti ai colori sgargianti e al volto umano di David Corenswet. Chi invece conosce il personaggio dai fumetti o dal classico di Richard Donner, non può che apprezzare questa sua nuova lettura.

martedì 8 luglio 2025

Hollywoodland

di Allen Coulter.

con: Adrien Brody, Ben Affleck, Diane Lane, Bob Hoskins, Robin Tunney, Kathleen Robertson, Lois Smith, Philio Mackenzie, Caroline Dhavernas.

Biografico/Giallo/Drammatico

Usa, Canada 2006

















Nel Maggio 1995, alla notizia dell'incidente che paralizzò a vita Christopher Reeve, la mente di molti spettatori e dei fan dell'Uomo d'Acciaio di casa DC non poté che correre ad un altro tragico evento che colpì uno degli storici interpreti di Superman.
Il 16 Giugno 1959, il corpo di George Reeves, che prestò volto e corpo a Superman a partire dal 1951, venne ritrovato senza vita nella sua casa di Los Angeles. Morto a soli 45 anni, Reeves lasciò un segno indelebile nella cultura popolare e per anni fu il suo volto ad essere quello associato direttamente al personaggio.
Ma il suo nome e la sua morte sono ricordate tutt'oggi per il mistero che ancora li permea. Sebbene inizialmente registrato come suicidio, il decesso lasciò perplessi molti di coloro che assistettero alla scena del crimine e soprattutto di chi conosceva la tumultuosa vita privata dell'attore.
Nel 2006, oltre cinquant'anni dopo gli eventi, Hollywood decide di rievocare la figura di Reeves in Hollywoodland, mix tra crime drama e biografia vera e propria atto a chiarire molti dei lati oscuri della vita e della morte dell'interprete.


Un'opera che all'epoca venne accolta molto bene: Allen Coulter ricevette una nomination come miglior regia al Festival di Venezia e la performance di Ben Affleck, che una decina d'anni dopo, paradossalmente, avrebbe combattuto Superman in Batman v. Superman- Dawn of Justice, gli valse parecchi riconoscimenti, compresa la Coppa Volpi.
Hoollywoodland rievoca la morte di Reeves tramite gli occhi di Louis Simo (Adrein Brody), immaginario detective privato losangelita incaricato di scoprire la verità dietro la morte dell'attore. La vita di quest'ultimo viene ricostruita per il tramite di flashback atti a disvelarne l'ascesa alla fama e la caduta in disgrazia, entrambe dovute a due figure femminili: l'amante Toni Mannix (Diane Lane), moglie di Eddie Mannix (Bob Hoskins), boss della MGM (la cui figura sarebbe poi stata rievocata dai fratelli Coen in Ave, Cesare!) e la fidanzata Leonore Lemmon (Robin Tunney).


Le ipotesi sulla morte di Reeves sono tre, ossia suicidio, omicidio per mano della Lemmon e assassinio per conto di Mannix, scontento di come la sua relazione con la Lemmon avesse causato la depressione della moglie Toni. 
Coulter e lo sceneggiatore Paul Bernbaum decidono di non dare una risposta al mistero, propongono tutte e tre le piste e lasciano che sia lo spettatore a decidere cosa davvero sia successo quella fatidica sera. Il focus del film riguarda piuttosto la persona di Reeves e, soprattutto, il mondo in cui questo si muove, un mondo fatto di gelosia e invidia, dove non esistono valori umani comunemente intesi.


Hollywood è il luogo dei sogni, ma la fama è sempre un'arma a doppio taglio. Una statuizione che nel 2006 era già vecchia, ma che qui trova la giusta forma.
Reeves diventa una star dalla sera alla mattina, ma le sue ambizioni vengono frustrate dal typecasting: a metà degli anni '50, essere il volto del supereroe per antonomasia era motivo di scherno e il costume di quello che già all'epoca era un'icona popolare non era percepito diversamente da quello di un comune clown.
Reeves diventa così l'ennesima vittima della cultura dell'apparire, di un mondo dove a nessuno importa davvero del talento o dell'ambizione, solo della vendibilità di un volto. Nella rievocazione tornano alcuni degli episodi più famosi a lui associati, come la proiezione test di Da qui all'Eternità durante la quale il pubblico rideva ad ogni sua apparizione e persino l'aneddoto secondo cui ad un evento pubblico un bambino cercò di sparargli con una vera pistola, per scoprire se fosse davvero a prova di proiettile, confinato in un sogno di Simo vista la sua poca plausibilità.
Il personaggio di Simo, poi, da buon detective, è lo strumento con il quale scandagliare la corruzione sottostante al business spietato, con i capi degli studio che arrivano ad utilizzare la polizia per spazzare lo sporco sotto al tappeto. A Hollywood non c'è genuinità, ciò che conta è la pura apparenza, dunque anche il mistero della morte di un attore è meglio che resti tale, con il fardello dell'indecifrabilità degli eventi che viene simboleggiato dalla figura dell'anziano culturista, apparizione lynchiana che accompagna Simo ogni qual volta sembra progredire con l'indagine.



Su tutto vige una coltre di tristezza, un'atmosfera mesta e funerea. La fotografia di Jonathan Freeman (poi attivissimo in televisione) desatura i colori e li vira al seppia, tecnica solitamente utilizzata per generare un sentimento nostalgico, che qui viene sostituito da uno di pura tristezza.
Hollywood diventa così non il luogo in cui i sogni si avverano, ma quello in cui sogni e ambizioni finiscono per morire, parabola malauguratamente calzante se si guarda alla figura di Reeves.
Laddove il cast fa il suo dovere e persino Ben Affleck riesce a creare un personaggio affascinante e empatico, la regia di Coulter è forse troppo vicina ad un formato televisivo, troppo ancorata alle parole della sceneggiatura, adagiandosi su di una narrazione "classica" che riesce sicuramente a trasmettere il giusto mood, ma che a tratti si dilunga sin troppo senza che nulla venga davvero aggiunto alla narrazione.



Hollywoodland è così un ritratto riuscito, anche se non memorabile, una rievocazione  di una figura suo malgrado tragica che ha fatto epoca, nonostante oggi sia poco ricordato.

venerdì 4 luglio 2025

Giordano Bruno

di Giuliano Montaldo.

con: Gian Maria Volonté, Charlotte Rampling, Hans Christian Blech, Mathieu Carriére, Renato Scarpa, Giuseppe Maffioli, José Quaglio, Paolo Bonacelli, Vernon Dobtcheff, Piero Vida.

Storico/Biografico

Italia, Francia 1973












Ottenuto il riconoscimento internazionale con Sacco e Vanzetti, Giuliano Montaldo decide di continuare la sua filmografia rievocando un altro caso oscuro di "omicidio di Stato", il quale aveva influenzato enormemente il pensiero dell'epoca in cui verificò. Ma questa nuova denuncia avrebbe affondato le proprie radici non nel passato prossimo, quanto in quello remoto, trattando il caso di Giordano Bruno, frate e filosofo del XVI secolo condannato al rogo dalla Santa Inquisizione nel 1.600, riletto in chiave moderna.



Il contesto nel quale il film esce in sala è del tutto particolare. Il Concilio Vaticano II, svoltosi tra il 1962 e il 1965, è riuscito a modernizzare, per quanto possibile, la Chiesa Cattolica, che ora è più vicina alle istanze riformiste della società. I conservatori persistono in molte frange dell'istituzione, ma soprattutto all'interno della politica, in particolare di quella DC sempre saldamente al potere. Nel frattempo, la società civile è infiammata dalla contestazione, dalle rivolte di intellettuali e privati cittadini, in particolare studenti e lavoratori, che reclamano diritti e garanzie e le cui richieste vengono spesso ignorante o sbeffeggiate dall'autorità.
La lettura di Montaldo del frate domenicano diviene così sia un atto d'accusa verso i vecchi costumi ecclesiastici, sia e soprattutto un atto d'accusa verso l'oscurantismo in generale, verso quelle istanze conservatrici che fanno persistere la società in posizioni vetuste a danno delle persone comuni e, in generale, dell'umano progresso.




Fra' Giordano Bruno trova in primis un'incarnazione vitale nel corpo e nelle movenze di Gian Maria Volonté, che di concerto con gli autori lo caratterizza come un uomo dalla vitalità incontenibile prima ancora che dall'intelletto tagliante. 
In una delle primissime scene, lo vediamo sedurre la nobildonna Fosca, interpretata da un bellissima Charlotte Rampling, moglie di un nobile veneziano. Bruno è così genio e sregoletezza? Non proprio, è più che altro un uomo moderno trapiantato nel XVI secolo, non un libertino nel senso stretto, quanto un filosofo che ha capito i limiti della dottrina ecclesiastica.
Il suo pensiero diventa quello di un pacifista schifato dal sangue versato nelle guerre di religione, di un giurista politico che auspica la secolarizzazione totale della politica, di un laico che predica la pace religiosa, di un religioso che pone dubbi sui dogmi della propria dottrina. Le sue idee divengono così la predicazione di un progressista che, nell'Italia dei primi anni '70, predica la modernizzazione di un costume ancora fortemente legato ad un conservatorismo il quale non ha più ragione di esistere.




Lo scontro tra Bruno e l'autorità cattolica viene però rievocato da Montaldo in modo meno radicale rispetto a quanto ci si possa aspettare. La sua figura non è semplicemente quella tragica di un filosofo illuminato mal sopportato, quanto quella di un uomo le cui idee, benché scomode, vengono quasi accettate dall'autorità, in particolare da quel pontefice, papa Clemente VII, il quale, nel condannarlo, si limita a seguire gli impulsi di una parte conservatrice dell'istituzione, non divenendo mai vero persecutore preoccupato di come la filosofia e in particolare l'eresia di Bruno possano inficiarne la figura e il potere.
Montaldo adotta quindi un approccio meno polemico, più trattenuto, ma non rinuncia lo stesso a dipingere Bruno come un martire sacrificato all'altare della preservazione dello status quo, ingenerando in parte un senso di incompiutezza nell'opera, piuttosto che di lettura oggettiva degli eventi.




Se la visione di Montaldo si fa quindi più cauta di quanto ci si sarebbe potuti aspettare, le immagini di Vittorio Storaro sono quantomai sfavillanti.
Prima di sperimentare con i cromatismi, il grande direttore della fotografia qui utilizza un'illuminazione naturalistica per le inquadrature, lasciando spesso che la luce filtri solo dall'esterno negli interni, creando contrasti quasi caravaggeschi. Nella costruzione delle scene, adopera spesso le oblique dal basso in modo tale che i personaggi torreggino verso lo spettatore, aumentando con facilità il pathos della vicenda.



La lettura di Montaldo è così storicamente coerente e al contempo proiettata verso la modernità in modo tutto sommato riuscito. Grazie alle immagini di Storaro, la sua rievocazione si fa quantomai vivida, ma pecca quando adopera un tono fin troppo mansueto per portare in scena quella che fu praticamente la storia di un provocatore illuminato schiacciato dalla repressione conservatrice.

giovedì 3 luglio 2025

R.I.P. Michael Madsen


 
1957 - 2025

Uno dei volti più riconoscibili del cinema americano degli ultimi 35 anni. Un caratterista dalla carriera sterminata, che conta oltre 330 ruoli tra cinema e televisione. Un uomo dal carattere difficile, dall'esistenza tormentata, i cui tumulti venivano esorcizzati anche con la poesia.
Michael Madsen è stato un interprete carismatico e solido, un volto granitico ed espressivo, spesso alle prese con ruoli malinconici per grandi autori, primo fra tutti Quentin Tarantino, che ne ha saputo sfruttare più di tutti la forte presenza.
Se ne va così un altro volto indimenticabile.